Categoria: Interviste

Lorenzo Mari e Claudio Morandini | La musica è un linguaggio?

Lorenzo Mari | Nel tuo romanzo Rapsodia su un solo tema, le riflessioni sulla musica e sulla letteratura s’intrecciano senza sosta, e sempre con estrema naturalezza. Danno luogo a incontri, scontri, contraddizioni, deviazioni, fusioni sinergiche, e, non ultimo, anche ad ampie considerazioni estetiche.

Claudio Morandini | È vero. Molti dei compositori di cui racconto la vita in Rapsodia praticano la scrittura, oltre alla musica. Carl Thalberg si ostina da anni dietro un trattato sull’accordo di settima di dominante (e va bene, qui siamo dalle parti dello scherzo) ed è il curatore del trattato rimasto incompiuto dal suo compagno Ethan Prescott; questi è poco meno che un grafomane, un trascrittore di tutto ciò che gli accade; Dvoinikov stesso ha accarezzato più volte in passato di scrivere su questo e su quello – essenzialmente sul suo antenato musicista e anch’egli poligrafo Joseph Mathias Mayer… Dietro a questa intrusione della scrittura c’è ovviamente una necessità, quella mia di ricondurre comunque alla forma del romanzo, alla narrazione, una materia che sembra appartenere ad altri ambiti. Ma non è solo questo. Prescott, e anche Dvoinikov, almeno nelle intenzioni, si affidano alla scrittura per dire ciò che non possono dire con la musica. Visto che la musica sembra parlare solo di se stessa, erigendo strutture di puri suoni, rifiutandosi a ogni contaminazione con la vita (Dvoinikov ne è convinto, Prescott sembra più possibilista riguardo a una semantica musicale), ecco che la scrittura, le parole vengono in soccorso. Danno a Prescott uno strumento con cui leggere la realtà, o almeno provare a metterci ordine; e a Dvoinikov, addirittura, garantiscono una libertà che la musica, più ossequiosa alle regole proprie e alle direttive altrui, sembra negare.
Entrambi, da musicisti che sanno bene cosa la musica è e cosa non è, tengono ben separati i due mondi. È il romanzo – sono io, cioè – che mescola le carte, e tenta di contaminare musica e scrittura, non solo ispirandosi con una certa libertà a una delle forme meno rigide della musica – la rapsodia –, o a una certa idea di musica a programma, ma anche ripercorrendo i diversi modi possibili con cui la parola può “raccontare”, o “analizzare”, o “parafrasare” la musica.

LM | Pare, tuttavia, che non sia più possibile fare questo attenendosi alla meta-letteratura che è stata tipica del “postmoderno classico”, se mi passi quest’ultima definizione, un po’ paradossale. Dove sono finiti gli scrittori che parlano di scrittori che parlano di scrittori o i personaggi che parlano di altri personaggi che parlano ecc.? Sono stati sommersi dalla quantità di narrazioni disponibili oggi (tanto che andremo incontro, secondo Douglas Coupland, alla de-narrazione)? Meglio rifugiarsi nelle note, e nel loro confronto con le parole? In altre parole, il testo meta-letterario è ormai da considerarsi come un oggetto d’antiquariato? Non serve più? C’è ancora qualche speranza nella riflessione interdisciplinare? Quale?

CM | Da questo punto di vista, anche Rapsodia su un solo tema appare come un oggetto di antiquariato – o meglio di modernariato. C’è sempre qualcuno che, dopo aver letto un mio romanzo, ne nota l’inattualità – il più delle volte, per fortuna, si tratta di un complimento. Non è un problema per me: come ho già detto altrove, mi sento appartenere al Novecento, per ragioni anagrafiche e sentimentali. Soprattutto appartengono al Novecento i miei personaggi, come Dvoinikov, che guarda con disincanto alla fine del mito dell’originalità (ma non è un problema così grave, visto che per lui la composizione è essenzialmente un lavoro di alto artigianato…), e Prescott, che vive invece con una certa spensieratezza in un ambiente postmoderno (ma la contaminazione con il basso, con la techno di DJ Kosmo, lo riempirà di angoscia e di stizza). Per loro la classica, classicissima struttura a matrioska (uno che racconta di un altro che racconta di un altro che…) è un modo accettabile di intendere non solo la loro arte, ma anche la loro vita.
Nessuno dei due corre il rischio di cadere nella de-narrazione; non ne possono sospettare nemmeno il futuro concepimento. Si comportano come “personaggi”, e tendono a leggere se stessi come figure di romanzo – be’, d’accordo, sono davvero personaggi da romanzo. Prescott anzi sembra vedersi come una figura da sit-com… In questo senso, il più compiaciuto dei due è Dvoinikov, che nel racconto della sua vita ritorna quasi proto-novecentesco, e scivola un paio di volte in un decadentismo fuori tempo massimo. Ma lo si perdona, perché per lui inventare la propria vita come la vita di un personaggio di letteratura è un modo per rivendicare un controllo su di sé e coltivare un orticello di libertà.
Tornando alla questione della meta-letterarietà: ho la netta sensazione che ogni testo sia un meta-testo – io, almeno, leggo così ogni cosa che mi capiti sotto gli occhi, al di là del contenuto, come una riflessione sul linguaggio. Non rinuncio al piacere di seguire le avventure corse dalle parole, di indagare la componente “narrativa” del linguaggio. Tu dici che oggi il modello ormai “classico” di meta-letteratura postmoderna è in crisi – e io ti credo, non frequento molto la contemporaneità, seguo di malavoglia i trend editoriali. Che sia sopravvenuto un effetto di saturazione? Troppi scrittori hanno scritto di se stessi o di altri scrittori? Troppi si sono interrogati sulla natura della scrittura? Troppi scrittori in crisi (ora volo più basso), ridotti a macchietta, troppi complessi da pagina bianca? Oppure la meta-letteratura è diventata un giochino superficiale, un ricorso ludico a stilemi, a comodi cliché? O infine nessuno si interroga più sulla scrittura perché nessuno (ora esagero) padroneggia più la scrittura? O nessuno ha più nulla da chiedere alla letteratura, se non placido svago e qualche salto sulla sedia al momento giusto?
Non posso rispondere a queste domande – ma è certo, per dirne una, che il Calvino che indagava le potenzialità combinatorie del narrare non sembra aver lasciato tracce tangibili oggi, tra gli scaffali delle librerie. Anzi, da qualche anno si diffida di quel modello, e lo si fa con uno strano sollievo, come se ci si fosse finalmente liberati da un gran peso. E non parlo da calviniano tutto d’un pezzo, bada, perché c’è ben poco di calviniano nel mio modo di procedere, di accumulare pagine nel corso di anni, lasciando che si creino connessioni e si sviluppino percorsi. Mi manca insomma quel suo senso progettuale della struttura – ma amo il mio modo arruffato di procedere a tentoni. Però sto divagando.
Mi chiedi se la musica possa soccorrere la letteratura nella riflessione su se stessa, attraverso il confronto tra le peculiarità e le differenze dei due linguaggi. Perché no, mi dico. A patto che con “musica” non si intenda semplicemente il mondo colorato di chi vive di musica, la ascolta, la produce, la esegue, la scrive – in tal caso la musica vale quanto, che so, l’architettura, il giardinaggio o qualunque altro microcosmo popolato di personaggi più o meno singolari. E a patto che non si parli di “musicalità” della lingua – questa è semplicemente la cara vecchia retorica dei classici, altro che musica. Ma una letteratura che si avvicina alla musica, ne “imita” le forme, ne esplora le strutture, e allo stesso tempo non si illude di trasformarsi in musica, perché procederà sempre con approssimazione, per analogie o per contrasti – ecco, una letteratura così può avere un qualche senso anche oggi, sarà una riflessione sui fondamenti e sui processi del linguaggio. La cosa può diventare intrigante se, come fanno certi compositori o teorici della musica, si mette in dubbio che la musica possa essere considerata un linguaggio.
Il bello è che non mi sono posto questi interrogativi mentre lavoravo a Rapsodia su un solo tema. Ho lasciato lievitare il romanzo, animato soprattutto dal piacere dell’invenzione, o della reinvenzione – anche se l’ho concluso oppresso da un senso crescente di angoscia. Soprattutto, ero spinto dal desiderio di condividere una appassionata familiarità con la musica. Le riflessioni teoriche sono venute dopo, e sono ancora in corso, come vedi.

Simone Olla | Intevista su Luce Bianca

[a cura di Chiara Ricci]

Come è avvenuto il suo incontro con la scrittura?

Il mio incontro con la scrittura è avvenuto nel 2003 con una raccolta di racconti pubblicata da un piccolo editore sardo.

Come è nato il progetto editoriale di “Luce bianca”?

La prima stesura di Luce Bianca risale al 2005, ma con un titolo diverso. È rimasto nel cassetto fino al 2018 quando l’ho riscritto integralmente. Solo nel 2021 ho deciso di sottoporre il romanzo alla casa editrice Catartica che l’ha accolto favorevolmente.

“Luce bianca” è il suo primo romanzo: cosa si aspetta dal suo esordio editoriale? E qual è l’emozione che ha accompagnato la stesura del suo testo?

È il mio primo romanzo soltanto in ordine di tempo. Dal 2005 a oggi ho scritto altri romanzi: alcuni di essi sono stati autoprodotti, altri sono ancora inediti.

Per la creazione del suo protagonista da chi o cosa ha tratto ispirazione?

Lessi un articolo che parlava di alcuni casi di sterilizzazione forzata avvenuti negli USA, in California, nel 1994. Ne rimasi molto colpito e iniziai a scrivere questa storia.

Quali sono gli Autori e le opere che hanno formato il suo essere scrittore e lettore?

Sono tanti gli autori e i libri che mi hanno formato. E fra questi tanti, in ordine sparso, scelgo e ringrazio: Ernst Jünger, Carmelo Bene, Nietzsche, Shakespeare, Marcel Proust, Baudelaire, Céline, James Joyce, David Foster Wallace, Jean Baudrillard, Carl Schmitt.

In “Luce bianca” è molto presente anche la musica. Come ha scelto i brani da inserire nel testo?

Le musiche dovevano essere funzionali alla narrazione: è stato questo il criterio utilizzato per la scelta.

Lei è socio fondatore e presidente dell’associazione culturale Casa lettrice Malicuvata di Bologna. Può raccontarci di più di questo progetto e di questo suo impegno culturale?

Fin dalla fondazione il nostro obiettivo è stato quello di fornire un servizio tanto alle piccole case editrici quanto agli autori – emergenti e non. Tra il 2008 e il 2013 abbiamo organizzato un centinaio di eventi letterari, curato il festival Passaggi per il bosco e pubblicato due volumi di narrativa – Racconti di periferie (2010) e Attraverso passaggi (2011) – e un libro-intervista al filosofo francese Alain de Benoist (Risposte al Gruppo Opìfice, 2013). Durante il mio soggiorno parigino ci siamo aperti al cinema con alterne fortune. Nel futuro prossimo vi è l’idea di rilanciare l’attività culturale e il sito internet.

È co-autore e interprete del lungometraggio “Le sedie di Dio”. Quali differenze ha riscontrato nella scrittura per il cinema e in quella di un romanzo? Quale stile e genere le appartiene di più?

Nel cinema vi sono diverse fasi di scrittura: trattamento, sceneggiatura, montaggio. Possiamo riscrivere un dialogo – smentendo di fatto la sceneggiatura – anche prima del ciak. Il montaggio, poi, è un’altra forma di narrazione che può radicalmente modificare l’idea iniziale dello sceneggiatore o del regista. Quando scrivi per il cinema devi mettere in conto che la tua idea potrà essere trasfigurata/modificata anche senza il tuo consenso. Con il romanzo questo non accade: si lavora di comune accordo con l’editor fino alla pubblicazione.

In “Luce bianca” si ritrova una scrittura rapida e immediata che molto si avvicina a quella cinematografica. Crede che il suo romanzo possa essere trasformato in una sceneggiatura e in un progetto per il grande schermo?

Me lo auguro.

Quali sono i suoi prossimi impegni editoriali?

Nel 2023 uscirà un romanzo per Castelvecchi editore dal titolo provvisorio “E invece non sei cambiata come me”.

Alain de Benoist e Danilo Zolo | Il Mediterraneo è l’avvenire dell’Europa

Dialogo fra Alain de Benoist e Danilo Zolo
[Intervista raccolta da Alain de Benoist, Éléments, 129 (Été 2008), pp. 26-32. Traduzione delle domande dal francese all’italiano a cura di Benoît Challand.]

Alain de Benoist. Lei è stato l’architetto, insieme a Franco Cassano, di un libro collettivo di oltre 650 pagine intitolato L’alternativa mediterranea (1). Citando Peregrine Horden e Nicholas Purcell – che nella loro opera monumentale The Corrupting Sea. A Study of Mediterranean History (2000) scrivono: «l’unità e la coerenza dell’area mediterranea sono indiscutibili» – aggiungete: «”Unità” non significa uniformità culturale o monoteismo», ma al contrario «pluriverso». Nel corso della storia, dalle guerre di Atene contro Sparta o dal grande scisma d’Oriente alla divisione attuale dei paesi arabi, passando per le avventure coloniali francesi e britanniche, non è che il Mediterraneo sia sempre stato profondamente diviso? Aldilà dei conflitti di cui il Mediterraneo è stato testimone, secondo Lei, cosa crea questa unità mediterranea, sia a livello storico e geografico che a livello spirituale, ambientale o simbolico?

Danilo Zolo. Come è noto, un contributo di grande rilievo al dibattito sulla questione mediterranea, e quindi sull’unità del Mediterraneo, è stato offerto da Fernand Braudel. Ed è appunto al suo pensiero storiografico che si ispira il libro che Franco Cassano ed io abbiamo recentemente curato per l’Editore Feltrinelli. Mentre Henry Pirenne aveva elaborato lo schema della cesura dell’unità mediterranea a causa della conquista araba del Medio Oriente e dell’Africa del Nord, Braudel ha valorizzato il pluralismo delle fonti culturali che hanno dato vita alla civiltà mediterranea. È un fatto incontestabile che la tradizione greca e quella latina hanno interagito con la cultura ebraica e con il mondo arabo-islamico grazie, fra l’altro, alla feconda mediazione degli ebrei spagnoli e dei moriscos, rifugiati in massa nel Maghreb nel corso del Cinquecento. Contro gli stereotipi dell’egemonia greco-latina, dell’orientalismo e del razzismo coloniale, Braudel e la “scuola algerina” hanno rivalutato la cultura araba: il suo immaginario artistico, la grande tradizione speculativa, medica e matematica. Come Peregrine Horden e Nicholas Purcell hanno più recentemente sostenuto nella scia della lezione di Braudel, c’è un elemento che dal punto di vista storico-ecologico unifica il Mediterraneo e lo distingue da ogni altra area geografica: è la rara coesistenza fra un ambiente naturale nel quale le comunicazioni umane si sono agevolmente sviluppate lungo le sponde marine e una topografia costituita da nuclei sociali di ridotte dimensioni, dislocati e frammentati lungo le coste e nelle isole. La singolarità orografica, il clima temperato e una vegetazione particolare – la vite, l’ulivo, gli agrumi – hanno fatto del Mediterraneo uno spazio ecologico che per millenni ha favorito, lungo tutte le sue sponde, la formazione e la stabilizzazione di strutture abitative, di colture rurali e di sistemi commerciali spazialmente dislocati e frammentati, ma nello stesso tempo in stretta comunicazione fra loro. L’intensità delle relazioni comunicative, dei travasi culturali, dei rapporti commerciali, degli incroci demografici e degli scambi più diversi, inclusi i conflitti, le guerre, le crociate e le scorrerie piratesche, hanno contribuito a forgiare una solida koiné culturale e civile. Lo sviluppo della cultura europea, a cominciare dalla eccezionale esperienza di Al-Andalus, si è intrecciata con la tradizione coranica. Queste radici comuni non sono state divelte neppure dai più aspri antagonismi e hanno prodotto frutti ricchissimi. Basti pensare che l’area mediterranea vanta la più grande concentrazione artistica del mondo. L’unità e la grandezza del Mediterraneo – questa è una delle tesi centrali del nostro libro su L’alternativa mediterranea – sta nella longevità del suo ‘pluriverso’ culturale che a rigore si è articolato non entro ‘un mare’, ma entro un ‘complesso di mari’. E si è trattato, come ha scritto Braudel, di mari “ingombri di isole, tagliati da penisole, circondati da coste frastagliate […] la cui vita si è mescolata alla terra e non è separabile dal mondo terrestre che l’avvolge”. In questo senso il Mediterraneo ha preservato la sua unità in quanto ‘mare fra le terre’, resistendo alla sfida proveniente dai grandi spazi oceanici e continentali scoperti dai navigatori spagnoli e portoghesi. Si potrebbe dire, attualizzando, che le ‘civiltà mediterranee’ sono sopravissute resistendo all”atlantismo’ americano.

Alain de Benoist. Nel suo libro L’occidentalisation du monde Serge Latouche, che ha contribuito anche al vostro volume, utilizza la parola «deculturazione» per descrivere il momento in cui il contatto tra culture «non si manifesta attraverso uno scambio equilibrato ma piuttosto attraverso un flusso massiccio a senso unico: la cultura che riceve è invasa, minacciata nella sua propria essenza e può essere considerata vittima di una vera e propria aggressione». Nel passato, l’espansione coloniale rappresentò un «flusso massiccio a senso unico», ma oggi è piuttosto il contrario. Sono le vecchie potenze coloniali che vivono con il sentimento di essere “invase” e «minacciate nella loro essenza». L’immigrazione massiccia con la quale gli Europei oggi si confrontano ha creato le condizioni possibili per la moltiplicazione veloce nei paesi occidentali di libri che puntano il dito non soltanto contro l’islamismo radicale ma anche contro l’Islam tout court. L’Europa si è rinchiusa in una posizione difensiva, avvertendo il mondo musulmano come una minaccia su tutti i fronti, sia interno che esterno. Un atteggiamento del genere non aiuta ovviamente alla realizzazione del parternariato euro-mediterraneo che voi vorreste vedere realizzato. Come analizza questa situazione? Come è possibile uscire dallo schema dello ‘scontro di civiltà’ e ricreare le condizioni propizie ad uno «scambio equilibrato»?

Danilo Zolo. Non direi in alcun modo che oggi assistiamo ad una inversione del fenomeno coloniale. Nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento le armate europee hanno invaso e occupato il resto del mondo e in particolare i paesi africani e arabo-islamici, facendo strage di centinaia di migliaia di persone innocenti, distruggendo le strutture politiche ed economiche dei paesi aggrediti, e devastandone le culture e le tradizioni. Oggi – si sostiene – sarebbero le vecchie potenze coloniali ad essere investite da imponenti flussi migratori che l’Europa inevitabilmente percepisce come una invasione coloniale in direzione inversa. Si tratta, a mio parere, di due fenomeni completamente diversi. Oggi il fenomeno coloniale è solo formalmente esaurito. In realtà, in particolare dopo il collasso dell’impero sovietico e l’emersione dello strapotere degli Stati Uniti d’America e dei suoi più stretti alleati europei, assistiamo a forme di neo-colonialismo particolarmente aggressivo che investono in particolare i paesi arabo-islamici. E questo accade nel contesto dei processi di globalizzazione che in larga parte coincidono con il progetto occidentale di egemonia globale sul piano economico, politico e militare. Lo Stato di Israele è l’architrave di questo colonialismo perdurante che occupa militarmente e domina un’area cruciale del Medio Oriente arabo-islamico. Nel frattempo sono i processi di globalizzazione economica guidati dalle massime potenze economiche del pianeta a produrre, con le crescenti sperequazioni economico-sociali che generano su scala planetaria, le grandi migrazioni verso Occidente. In questo senso il Mare mediterraneo, nelle condizioni in cui oggi si trova, è per un verso uno spazio neo-coloniale a disposizione delle grandi potenze occidentali per controllare militarmente l’intera area mediorientale, mesopotamica e centro-asiatica. Per un altro verso il Mediterraneo viene usato dall’Europa come barriera per contenere drasticamente i flussi migratori provenienti in larga parte dai paesi arabo-islamici della sponda sud-est. L’Occidente intero nega se stesso nel suo delirio di onnipotenza e fomenta il fenomeno del terrorismo islamico, mentre l’Europa percepisce i migranti – di cui peraltro ha un estremo bisogno – come “diversi”, come nemici invasori, come quasi-terroristi. La sola risposta possibile a questo collasso è un’Europa meno occidentale e più “europea”, meno asservita agli interessi degli Stati Uniti, pronta a un dialogo paritario con il mondo islamico, capace di impostare la questione israelo-palestinese come un problema mediterraneo, attenta e partecipe alle imponenti novità che stanno investendo l’Asia orientale, a cominciare dal colosso cinese.

Alain de Benoist. A partire dagli anni Settanta, la «questione mediterranea» è stata affrontata nei paesi europei soprattutto dal punto di vista dell’«integrazione regionale». In particolare ci si ricorderà della creazione di un Forum mediterraneo nel 1988, di una sessione della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione nel Mediterraneo nel 1990 e della prima Conferenza Euro-Mediterranea nel novembre 1995 a Barcellona. Qual è il bilancio di queste iniziative? E cosa pensa del progetto di un’«Unione per il Mediterraneo» sostenuta e voluta da Nicolas Sarkozy?

Danilo Zolo. Il “processo di Barcellona”, che ha concluso una lunga serie in iniziative prodromiche, è stata una strategia europea molto ambiziosa, che per la prima volta ha tentato di avviare una cooperazione di largo respiro fra le due sponde del Mediterraneo. L’accordo riguardava il progetto di un ‘partenariato globale’ di lungo periodo, che fra l’altro intendeva attribuire particolare rilievo alle ‘società civili’ e alla dimensione culturale. Sono trascorsi oltre dieci anni dalla Dichiarazione di Barcellona, un arco di tempo sufficiente per tentare una valutazione dei risultati ottenuti. Per quanto riguarda il tema della pace e della sicurezza, due vicende hanno segnato l’area euromediterranea nell’ultimo decennio del Novecento e nel primo lustro del Duemila: la prima riguarda il fallimento di ogni progetto di riscatto del popolo palestinese dalla spietata occupazione militare israeliana. La seconda vicenda riguarda la crescente pressione strategica che gli Stati Uniti, direttamente o attraverso la NATO, hanno esercitato nei confronti dell’area euromediterranea, in particolare nei Balcani. Queste due vicende mostrano come il ‘processo di Barcellona’ non abbia impedito che il Mediterraneo e il Medio Oriente divenissero, congiuntamente, l’epicentro di un conflitto mondiale: da una parte le potenze ‘atlantiche’, incluso Israele, e dall’altra i paesi da esse considerati ostili, perché in contrasto con gli ‘interessi vitali’ e le strategie egemoniche dell’Occidente o perché ritenuti terroristici o complici del terrorismo. Anche il partenariato economico-finanziario varato a Barcellona non ha realizzato i risultati che prometteva con la seducente formula della ‘prosperità condivisa’: non ha ridotto lo squilibrio esistente fra le due sponde del Mediterraneo e non ha garantito stabilità e sicurezza. Il Mediterraneo era caratterizzato al momento del lancio del ‘processo di Barcellona’ da un altissimo livello di disomogeneità socio-economica. Questa situazione non solo non è cambiata, ma si è aggravata. In particolare il protezionismo praticato dall’Europa a tutela degli agricoltori europei ha contribuito all’ulteriore impoverimento dei paesi arabi. Mentre è stata liberata la circolazione dei manufatti, per i prodotti agricoli è stato mantenuto un regime di ‘regionalismo bilaterale’ che consente l’applicazione di quote e restrizioni all’importazione di questi beni nei paesi europei. E questo ha inibito lo sviluppo del mercato proprio in un settore nel quale i paesi mediterranei economicamente meno avanzati avrebbero potuto fruire di un vantaggio comparato. Per tradursi in una effettiva esperienza di integrazione economica – con i corollari politici auspicati – il processo di Barcellona avrebbe dovuto intensificare la tensione politica e culturale verso una cooperazione realmente multilaterale. E questo avrebbe dovuto comportare, soprattutto per iniziativa dei paesi euromediterranei come la Spagna, la Francia e l’Italia, un reale trasferimento di risorse, incluse le risorse umane, culturali, scientifiche e tecnologiche, che ponesse in secondo piano i temi della sicurezza, del controllo dei flussi migratori, dello smercio dei prodotti industriali e della protezione dei mercati agricoli. Quanto al progetto dell'”Union méditerranéenne”, recentemente lanciato da Nicolas Sarkozy, risulta difficile darne una precisa valutazione poiché è arduo coglierne le motivazioni e le finalità. Si tratta probabilmente di una confusa ed estemporanea idea neo-coloniale diretta a restituire alla Francia una funzione di controllo del Mediterraneo occidentale, tale da irrobustire il ruolo francese all’interno dell’Unione europea, in competizione soprattutto con la Germania.

Alain de Benoist. La dilatazione globale della potenza marittima fa sì che il Mediterraneo sia diventato, in parte, un mare americano, e allo stesso tempo una delle zone più instabili e pericolose del mondo. Samir Amin ha scritto che il Mediterraneo oggi rappresenta la principale zona di influenza di un’Alleanza atlantica che non è più diretta contro la minaccia sovietica, ma contro il Sud. In qualità di autore di numerosi lavori sul diritto internazionale e sul suo sviluppo, come giudica questa presenza americana nel Mediterraneo? Una «dottrina Monroe» per questa zona del mondo é ancora possibile?

Danilo Zolo. L’atlantismo contemporaneo, figlio legittimo di una strategia imperiale, segna una crescente subordinazione politica e militare dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti, al cui ombrello nucleare e satellitare gli europei continuano a delegare la propria sicurezza anche dopo la scomparsa del pericolo sovietico. Superato il bipolarismo, la NATO si è convertita in un apparato bellico di portata globale ed è stata utilizzata dagli Stati Uniti per tre finalità strategiche: anzitutto per accerchiare la Russia, arruolando nelle proprie fila un numero crescente di paesi dell’Est europeo da agganciare al baluardo atlantico della Turchia. In secondo luogo, la NATO è stata usata per coinvolgere l’Europa nelle ‘guerre umanitarie’ nei Balcani e in Afghanistan, in modo da scoraggiare i suoi timidi tentativi di dotarsi di una struttura militare autonoma. Last but not least, la NATO ha consentito agli Stati Uniti di tenere sotto il proprio presidio politico e militare l’area mediterranea, escludendone l’Europa. A quest’ultimo obiettivo obbedisce in particolare il disegno strategico intitolato Broader Middle East and North Africa Initiative (BMNA), varato dall’amministrazione Bush nel giugno 2004 e subito accolto dalla NATO. A favore della “modernizzazione” del mondo islamico e in nome dei “valori universali della dignità umana, della democrazia, dello sviluppo economico e della giustizia sociale” gli Stati Uniti intendono porre sotto il proprio controllo l’intera area che va dalla Mauritania e dal Marocco – dove hanno interessi petroliferi e già dispongono di numerose basi militari – all’Afghanistan e al Pakistan, passando per il Medio Oriente e i paesi del Golfo persico. Israele è pensato come l’architrave di questa strategia ‘atlantica’ e anti-mediterranea, mentre la questione palestinese resta del tutto emarginata. Com’è naturale, la pressione politica nei confronti del mondo arabo viene accompagnata da iniziative economiche, che si sommano agli ingenti finanziamenti di cui godono da tempo paesi arabi ‘moderati’ come l’Egitto e la Giordania. Per questo fine è stato avviato, in parallelo a quello del Broader Middle East, un altro progetto, il Middle East Partnership Initiative (MEPI, che prevede finanziamenti per 40 milioni di dollari destinati alle associazioni e ai mezzi di comunicazione di massa, chiamati pudicamente “organi di diplomazia pubblica”, favorevoli agli Stati Uniti.. È dunque il caso di chiedersi in che senso, in nome di quali valori e di quali interessi comuni l’Europa può continuare a far parte dell’Occidente e non debba invece puntare su una sua crescente autonomia, su una sua nuova centralità geopolitica come “grande spazio” (Großraum), ispirandosi, come ha suggerito Schmitt, alla concezione originaria della “dottrina Monroe”. Si tratterebbe di un’Europa radicata nella sua millenaria cultura, nelle sua radici mediterranee, nella sua capacità di un approccio non fondamentalista ai problemi del dialogo fra le civiltà e della pace mondiale. Non è chiaro perché l’atlantismo dovrebbe essere il destino irreversibile dell’Europa e del Mediterraneo.

Alain de Benoist. A partire dalla seconda guerra mondiale, le relazioni tra Europa e mondo arabo si sono inscritte nella logica della potenza strategica degli Stati Uniti. Sembra che gli Europei abbiano lasciato agli Americani la gestione del conflitto israelo-palestinese. Poiché la stabilità del mondo mediterraneo dipende fondamentalmente dalla risoluzione di questo conflitto, a Suo parere quale soluzione è possibile? Uno «Stato palestinese» come lo vorrebbe la comunità internazionale ma di cui Israele non vuole ovviamente sentire parlare? Uno Stato unico per ambedue i popoli come suggeriva Martin Buber che però Israele vuole ancora meno?

Danilo Zolo. Una condizione essenziale per il recupero dell’unità del Mediterraneo e per la pacificazione del Medio Oriente (e del mondo) è senza dubbio la soluzione della questione palestinese. E questa soluzione ha a sua volta come condizione il superamento della ideologia sionista. L’intera vicenda dell’invasione ebraica della Palestina e della autoproclamazione dello Stato di Israele ruota attorno ad una operazione ideologica che si è incarnata in una strategia politica di lungo periodo: la negazione dell’esistenza del popolo palestinese e quindi la piena disponibilità delle sue terre all’occupazione da parte di Israele. La negazione dell’esistenza di un popolo nella terra dove si intendeva installare lo Stato ebraico è lo stigma coloniale che caratterizza sin dalle sue origini il movimento sionista: un movimento del resto strettamente legato alle potenze coloniali europee e da esse sostenuto in varie forme.

Dopo aver a lungo progettato di costituire in Argentina, in Sudafrica o a Cipro la sede dello Stato ebraico, la scelta del movimento sionista cadde sulla Palestina non solo e non tanto per ragioni religiose, quanto perché si sosteneva, assieme a Israel Zangwill, che la Palestina era “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Ed è in nome di questa logica coloniale che nel 1948 iniziò l’esodo forzato di grandi masse di palestinesi – non meno di settecentomila – anche grazie al terrorismo praticato da organizzazioni sioniste radicali come la Banda Stern e l’Irgun Zwai Leumi, celebre per aver raso al suolo il villaggio di Deir Yassin e sterminato i suoi 300 abitanti. Ma la ‘liberazione’ dei territori palestinesi – chiamata dagli israeliani ‘guerra di indipendenza’ – fu opera soprattutto dell’esercito israeliano, l’Haganah, per volontà dei suoi generali e dei leader sionisti che intendevano espandere i confini dello Stato ben oltre quelli indicati dalle Nazioni Unite. Nel 1949, alla fine della guerra arabo-israeliana, Israele occupava infatti non il 56% dei territori della Palestina mandataria, ma oltre il 78%. Questo accertamento storico – che dissolve i miti e gli stereotipi del nazionalismo sionista e presenta in nuova luce l’intera vicenda dei rifugiati palestinesi – è il clamoroso risultato delle indagini storiografiche compiute da un folto gruppo di ‘nuovi storici’ israeliani che hanno potuto disporre, a partire dalla fine degli anni settanta, dei documenti degli Archivi di Stato. Ha preso così avvio in Israele, attorno alle università di Beer Sheva e di Haifa, una vera e propria scuola storiografica – ma anche archeologica, antropologica e sociologica – che critica il sionismo e propone una rilancio ‘post-sionista’ della politica di Israele. Gli esponenti ‘revisionisti’ più noti sono Avi Shlaim, Simha Flapan, Beny Morris, Tom Segev e soprattutto Ilan Pappe, che si è spinto sino a parlare di “pulizia etnica del 1948”. Secondo Pappe la ‘pulizia etnica’ è stata varata dal governo israeliano, guidato da Ben-Gurion, nel marzo del 1948, con un piano preciso e articolato, il Piano Dalet, di “de-arabizzazione della Palestina”. E da allora, egli sostiene, l’epurazione non si è più fermata. La situazione attuale vede ormai l’intero popolo palestinese disperso, oppresso, umiliato, ridotto in povertà e fatto oggetto di una violenza spietata che Israele ritiene proporzionata agli attentati terroristici che ha subito nel corso della prima e della seconda Intifada. Se già alla fine del 1948 Israele occupava il 78% della Palestina mandataria, oggi, dopo la Guerra dei 6 giorni, la occupa al 100%, avendo invaso i territori rimasti ai palestinesi e avendo annesso anche Gerusalemme. L’epurazione etnica è stata via via accompagnata dalla espropriazione delle terre, dalla demolizione di migliaia di case palestinesi, dalla cancellazione di interi villaggi, dall’intrusione di imponenti strutture urbane nell’area di Gerusalemme araba e di Nazaret, dall’abbattimento di centinaia di migliaia di olivi e di alberi da frutta. Ma è soprattutto la vicenda degli insediamenti coloniali nei territori occupati a fornire la prova del buon fondamento dell’interpretazione ‘colonialista’ del sionismo proposta da Edward Said. Come spiegare altrimenti il fatto che, dopo aver conquistato il 78% del territorio della Palestina storica, dopo aver annesso Gerusalemme est ed avervi insediato non meno di 180 mila cittadini ebrei, lo Stato di Israele si è impegnato in una progressiva colonizzazione anche di quell’esiguo 22% rimasto ai palestinesi, e già sotto occupazione militare? Come è noto, a partire dal 1968, per iniziativa dei governi sia laburisti che di destra, Israele ha confiscato circa il 52% del territorio della Cisgiordania e vi ha insediato oltre 200 colonie, mentre nella popolatissima e poverissima striscia di Gaza ha confiscato il 32% del territorio, istallandovi circa 30 colonie. Dopo lo sgombero unilaterale della striscia di Gaza, voluto nel 2005 da Sharon, oggi non meno di 400 mila coloni risiedono nei territori occupati della West Bank. Vivono in residenze blindate, collegate fra loro e con il territorio dello Stato israeliano attraverso una rete di strade (le famigerate by-pass routes), interdette ai palestinesi, che segmentano e lacerano i territori occupati. Per tacere delle centinaia di checkpoints, della depredazione delle risorse idriche, della carcerazione o uccisione ‘mirata’ di leader politici, del milione e mezzo di persone che a Gaza vivono in condizioni disperate, come ha provato, con una analisi agghiacciante, Sara Roy. E a tutto questo, per volontà di Sharon, si è aggiunta la ‘barriera di sicurezza’ che ha rinchiuso le comunità palestinesi della Cisgiordania in prigioni a cielo aperto. A questo punto, come tentare di risolvere la ‘questione della Palestina’? Come riportare la pace fra Israele e il popolo palestinese e, più in generale, fra arabi ed ebrei? Ciò che si può sostenere con sicurezza, assieme a Martin Buber, Edward Said e Ilan Pappe e all’intera scuola dei ‘nuovi storici’ israeliani, è che il peccato originale dello Stato di Israele è il suo carattere sionista. Il sionismo, grazie al sostegno militare ed economico – tre miliardi di dollari all’anno – degli Stati Uniti e all’omertà dell’Europa, ha fatto dello Stato di Israele una sorta di ‘cuneo atlantico’ nel cuore del Mediterraneo, ha lacerato la continuità umana, politica e culturale della sua sponda orientale, ha cancellato l’identità di un popolo mediterraneo, trasformandolo in una massa di rifugiati, di epurati e di oppressi. Per questo la ‘questione della Palestina’ è una questione mediterranea e la soluzione non può essere cercata se non nella direzione del ‘post-sionismo’. E questo non può che significare, anzitutto, come auspicava Martin Buber, l’abbandono del carattere etnocratico dello Stato israeliano, la sua piena secolarizzazione e democratizzazione. E comporta, ancora con Buber, l’abbandono dell’idea dei ‘due Stati per due popoli’, quello ebraico e quello islamico, l’uno giustapposto all’altro. L’idea che oggi sia ancora possibile la formazione di uno Stato palestinese è patetica illusione o crudele impostura, nonostante il suo grande valore simbolico, le giuste aspettative della maggioranza dei palestinesi e il suo pieno fondamento nel diritto internazionale. Gli effetti della discriminazione etnica sono ormai irreversibili: mai uno Stato palestinese degno del nome sorgerà sulle rovine di Gaza e della Cisgiordania. La sola prospettiva, altamente problematica ma senza alternative, è quella di uno Stato israelo-palestinese ‘post-sionista’, laico ed egualitario, che riconosca eguali diritti a tutti i suoi cittadini.

Alain de Benoist. In libri recenti, Târiq al-Bishrî e Hamadi Redissi dimostrano benissimo come il contatto con l’Occidente abbia prodotto nel mondo islamico un vero «trauma della modernità» (sadmat al-hadatha). Fino alla metà degli anni 1960, le elite arabe e del Vicino-Oriente avevano scommesso tutto sulla modernità forzata. L’impresa è fallita e il fondamentalismo l’ha sostituita. Allo stesso tempo, vediamo chiaramente che la critica alla modernità da parte dei fondamentalisti contiene una fascinazione per essa che non si osa esprimere apertamente. Sapendo che la «modernizzazione» è l’adozione simultanea della società di mercato, dell’ideologia dei diritti umani, dell’individualismo occidentale, della democrazia liberale e dello «Stato di diritto», come vede i rapporti del Sud con la modernità? Cosa pensa dell’atteggiamento di quelli che, giudicando la modernizzazione una necessità, sostengono che il modello occidentale debba essere esportato nel mondo arabo-musulmano?

Danilo Zolo. Ci sono autori che identificano tout court i processi di globalizzazione con la diffusione della modernità occidentale. Fra questi ci sono filosofi e sociologi europei, come Jürgen Habermas, Ralf Dahrendorf, Antony Giddens, Ulrich Beck, per i quali il problema cruciale del nostro tempo non è quello del dialogo e del reciproco rispetto fra le diverse civiltà e culture del pianeta. Il problema principale è l’unificazione del mondo attorno ai valori dell’Occidente, assunti come universali o come universalizzabili. Ciò che si trova oltre il cerchio della modernità occidentale è arretratezza economica, oscurantismo, fanatismo, oppressione. In opposizione a questo punto di vista, per quanto riguarda un possibile dialogo fra l’Europa e la cultura islamica, centrale è il tema del rapporto fra Islam e modernità. Va sottolineato anzitutto che questo rapporto ha tormentato il mondo arabo-islamico sin dagli inizi dell’Ottocento, a partire dalla vittoriosa spedizione di Napoleone Bonaparte in Egitto. La dolorosa esperienza della ‘scoperta dell’altro’ come potente e come vincitore si è ripetuta più volte nel corso dell’era coloniale fra Ottocento e Novecento e ancor di più nella seconda metà del secolo scorso, a causa delle ‘umiliazioni’ che l’Occidente, direttamente o tramite lo Stato israeliano, ha inflitto al mondo arabo: anzitutto la sconfitta subita nel 1949 da parte delle armate israeliane e, nel 1967, la completa occupazione dei territori palestinesi a conclusione della Guerra dei sei giorni; poi è intervenuto il trauma della guerra del Golfo del 1991 – una sconfitta che Fatema Mernissi ha posto in particolare rilievo -, e infine l’aggressione anglo-americana contro l’Iraq del marzo 2003. Come hanno sostenuto Târiq al-Bishrî e Hamadi Redissi, il ‘trauma della modernità’ è una lesione che continua a ‘destrutturare’ e a lacerare il mondo islamico. È quella che Samir Kassir, prima di essere assassinato, aveva chiamato ‘la sindrome del malheur arabe’, l’infelicità degli arabi. Le aggressioni coloniali e postcoloniali che i paesi arabi hanno subito, assieme all’oppressione politica ed economica che ne è seguita, hanno introdotto una profonda ‘divisione’ entro la maggior parte delle istituzioni intellettuali, educative, politiche ed economiche del mondo arabo. L’assoluta superiorità degli invasori, in materia di scienza, tecnica, organizzazione politica e normazione giuridica, ha costretto gli arabi a imparare dai loro nemici e a seguirne le regole. Ciò li ha posti in una situazione paradossale: resistere con tutti i mezzi alle potenze coloniali e nello stesso tempo imitarle per tentare di dare efficacia alla resistenza e di sconfiggerle. Questo ha aperto una profonda frattura nei valori di riferimento della società islamica, divisa fra la fedeltà alla tradizione coranica, da una parte, e la necessità, dall’altra, di ‘apprendere dai nemici’, allontanandosi da quella tradizione. La frattura ha generato una sorta di schizofrenia che non riguarda soltanto i rapporti sociali all’interno del mondo arabo-islamico, ma che molto spesso colpisce anche le coscienze individuali, tese fra due possibili modelli di esperienza fra loro in larga misura incompatibili.

Alain de Benoist. Nel vostro libro, Franco Cassano accenna all’opposizione tra due tipi di uomini, che Arnold J. Toynbee descriveva come «Erodiani» e «Zeloti». Gli Erodiani sono quelli che prendono l’Altro come modello e che, sempiterni seguaci e collaboratori, si mettono dalla parte del più forte. Sarebbero oggi gli atlantisti e gli occidentofili. Gli Zeloti sono invece quelli che difendono la loro identità ma in un modo convulso e contratto. Sarebbero oggi i fondamentalisti musulmani. Si può spezzare questa dualità infernale? Sfuggire alla dicotomia «Jihad vs. McWorld»? L’Occidente è capace, secondo Lei, di combattere con efficacia il fondamentalismo islamico senza perdere il suo proprio fondamentalismo che riduce qualsiasi intreccio sociale alla logica di un mercato dove tutto nel mondo può essere acquistato?

Danilo Zolo. L’Occidente non può opporsi al fondamentalismo islamico senza prima rinunciare al suo fondamentalismo, che è, essenzialmente, il fondamentalismo del mercato, del profitto, della produzione e del consumo, sostenuto con la forza del potere militare e in dispregio del diritto internazionale. Se è così, la via della pace nel Mediterraneo e nel Medio Oriente passa per la capacità della ‘vecchia Europa’ di recuperare i suoi valori originari, a cominciare dalla riaffermazione del diritto e delle istituzioni internazionali e della necessità del dialogo e della cooperazione con le altre culture e civiltà, anzitutto con il mondo islamico e quello cinese-confuciano. E la pace internazionale dipende, almeno in parte, dalla capacità dell’Europa di svolgere una funzione di equilibrio strategico in un mondo che tenta di liberarsi dall’unilateralismo imperiale degli Stati Uniti e di darsi un assetto multipolare e policentrico. Si potrebbe sostenere che l’ordine mondiale dipenderà dalla capacità dell’Europa di essere ‘europea’ e cioè sempre meno atlantica e sempre meno occidentale: un’Europa orientata a svolgere un ruolo autonomo nel medio Oriente e nell’Oriente asiatico. L’emergere di grandi potenze regionali come l’India e la Cina rischia altrimenti di fare del Pacifico il nuovo epicentro egemonico del mondo, emarginando ancora una volta l’Europa, il Mediterraneo e i loro valori. La realizzazione di un mondo meno spietato e violento passa dunque, molto probabilmente, (anche) per una strategia euromediterranea che sia capace di fermare il progetto imperiale ‘oceanico’ e di aprire una breccia nella compattezza dello schieramento manicheo che oggi divide il mondo: da una parte alcune grandi potenze occidentali che si ritengono portatrici di valori assoluti e legittimate a usare la violenza per tutelarli e diffonderli, e, dall’altra parte, i paesi islamici dove le armate ‘cristiane’ possono impunemente fare strage di decine di migliaia di persone innocenti e decidere l’impiccagione dei nemici aggrediti e sconfitti. Nella sua attuale subordinazione atlantica l’Europa, dimentica delle sue radici mediterranee, subisce una grave amputazione, che è all’origine della sua incapacità autocritica, della sua debolezza identitaria, della sua impotenza come attore politico internazionale. L’Europa è costretta a pensarsi come ‘Vecchia Europa’, e cioè come una fase superata dello sviluppo storico che ha portato all’affermazione della civiltà occidentale. E in questa prospettiva, salvo la sua arretratezza politica e militare, l’Europa tende a identificarsi con gli Stati Uniti e a condividerne la peculiare concezione della modernità’, con al centro l’individualismo estremo, la pulsione acquisitiva, la competizione, l’efficienza produttiva e la crescita economica, con l’inevitabile corollario della devastazione dell’ambiente.

Alain de Benoist. Il vostro libro si chiama L’alternativa mediterranea. In che senso (e rispetto a cosa) il Mediterraneo costituisce un’alternativa nel mondo odierno? A quali condizioni essa si potrebbe realizzare?

Danilo Zolo. L’unità, l’originalità e la grandezza civile del ‘pluriverso’ mediterraneo sono un patrimonio storico e politico che oggi rischia di essere cancellato, sopraffatto com’è da strategie ‘oceaniche’ – universalistiche e ‘monoteistiche’ – che minacciano non solo la convivenza fra i popoli mediterranei, ma anche l’ordine e la pace internazionale. Per ‘alternativa mediterranea’ si può dunque intendere il tentativo di resistere, facendo leva su un recupero della tradizione e dei valori mediterranei, alla deriva universalistica e ‘monoteistica’ che viene dall’Occidente estremo – gli Stati Uniti d’America – e si abbatte con violenza sul vecchio mondo. L”alternativa’ è denunciare e contrastare il fondamentalismo neo-imperiale – aggressivo e bellicista – che si propone di recidere ogni rapporto fra le due rive del Mediterraneo, subordinando l’Europa allo spazio atlantico e sottoponendo il mondo arabo-islamico ad una crescente pressione politica, economica e militare. È il caso di aggiungere che l’idea di una ‘alternativa mediterranea’ che qui è stata tratteggiata si ispira alla scuola di Algeri e alla lezione braudeliana non solo per il rifiuto di ogni riferimento unilaterale e apologetico alla tradizione romana e cristiano-cattolica, ma anche per la diffidenza ‘realista’ verso una visione nostalgica o romantica del Mediterraneo. La mitologia dell’età dell’oro greco-romana finisce per applicare il paradigma ‘orientalista’ al Mediterraneo stesso, facendone un prezioso fossile della protostoria occidentale, senza prospettive se non quelle del piccolo cabotaggio turistico-commerciale. Predrag Matvejevi non ha torto quando insiste nel denunciare il passatismo retrospettivo di molta letteratura mediterranea, che sembra riferirsi agli antichi splendori imperiali – o alla dolcezza del clima, o ai paesaggi pittoreschi – come alle sole possibili fonti della propria legittimazione intellettuale, e non ha energie per concepire un progetto innovativo. L’alternativa mediterranea che viene qui proposta vorrebbe valorizzare, piuttosto, la cultura del limes, dei molti Dei, delle molte lingue e delle molte civiltà, del ‘mare fra le terre’ estraneo alla dimensione monista, cosmopolitica e ‘umanitaria’ delle potenze oceaniche. Resta tuttavia una condizione essenziale perché il progetto di revisione e di rilancio della cooperazione mediterranea possa avere un minimo successo: è necessaria un’incisiva trasformazione del rapporto fra il processo di unificazione dell’Europa, la sua appartenenza all’emisfero occidentale e le sue radici mediterranee. Oggi l’Europa, nella percezione diffusa degli europei e non solo nella ideologia dei neocon statunitensi, è la periferia sud-orientale dello spazio atlantico, mentre il centro è saldamente ancorato alla Statua della libertà. L’Europa unita ha oggi una popolazione che è più del doppio di quella statunitense ed è quattro volte quella del Giappone. È la prima potenza commerciale del mondo e il suo Prodotto interno lordo è pari a un quarto del Prodotto interno lordo mondiale. Ma sul piano politico e militare l’Europa è inesistente: è semplicemente la frontiera che separa l’emisfero occidentale dall’oriente asiatico e dal mondo islamico. E l’Europa è sempre più in ritardo sul quadrante di una storia contemporanea che l’energia distruttiva e innovativa del ‘nuovo mondo’ americano ha spinto verso una mutazione continua. Ed è naturale che l’ideologia politica e militare dell”atlantismo’ continui a raccogliere forti consensi in Europa, soprattutto nell’area anglosassone e nell’Est europeo, che hanno avuto deboli interazioni con le culture fiorite sulle sponde del Mediterraneo, quella arabo-islamica in particolare.

NOTE

1. Danilo Zolo, Franco Cassano (a cura di), L’alternativa mediterranea, Milano, Feltrinelli, 2007, 659 pagine.

A domanda risponde Laura Pugno

Marialuisa Fascì Spurio: Tra letteratura fantastica e romanzo di formazione, in Quando verrai hai scelto di raccontare un momento importante nella vita del tuo personaggio: l’adolescenza? Credi che esista una legame particolare tra questa fase della vita e quella oscura sospensione magica che pervade tutto il romanzo, l’elemento della soprannaturalità?

Laura Pugno: L’adolescenza è il passaggio della linea d’ombra, il momento in cui il nostro essere “mutaforma”, a differenza che nell’infanzia, può essere vissuto improvvisamente con angoscia. Nelle società tribali, è il momento in cui si diventa adulti e si fanno i conti con la morte: la possibilità di infliggerla, di riceverla, di vederla nelle persone care. Oggi non è quasi più così, ma questa valenza di fondo resta, e le esperienze che gli adolescenti attraversano – le scoperte, le prime volte, i superamenti del limite – vengono vissute dalla società come potenzialmente pericolose. E’ anche il momento in cui improvvisamente si risvegliano alcune malattie mentali e fisiche che a volte rimangono latenti nell’infanzia. Tutto questo forse non è soprannaturale, ma e’ naturale all’ennesima potenza come lo è il potere di Eva, che è sì una ragazzina fragile, ma ha anche un nucleo duro, indistruttibile, come il sasso che porta in tasca.
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Laura Pugno è nata a Roma nel 1970.
Nel 2001 ha raccolto le sue poesie, con alcune prose di Giulio Mozzi, in Tennis, Nuova Magenta Editrice. Il suo primo libro di racconti, Sleepwalking, è uscito nel 2002 per Sironi editore. Nel 2005 è stata finalista al premio di poesia Antonio Delfini e ha vinto il premio Scrivere Cinema all’Autumn Film Festival. Ad aprile 2007 pubblica il poemetto Il colore oro, per la casa editrice Le Lettere; A maggio 2007, il romanzo Sirene, per Einaudi. Nel 2009 ha pubblicato Quando verrai per la Minimum Fax.

a domanda risponde Dora Albanese

Giuseppe Merico: Il primo racconto della tua raccolta di storie brevi dal titolo “Non dire madre” è un lungo excursus (47 pagine) sul tentativo di diventare madre, non tanto madre negli anni o con l’esperienza, ma madre nell’immediatezza, nell’atto, nel concepimento. La scena si snoda appena fuori dalla sala operatoria. Tutto è già accaduto, tutto deve ancora accadere, tutto sta accadendo. La confidenza con il corpo è palpabile, quella con i sentimenti è accurata, sembra chirurgicamente sezionata con un bisturi che di razionale però non ha nulla, anzi riesci a muoverti utilizzando la scrittura seguendo stati d’animo spesso contraddittori e ipnotici, passami il termine. Ecco, leggendo questa prima storia e avvicinandomi alla seconda che porta lo stesso titolo della raccolta, ho avuto l’impressione che stessi scrivendo un romanzo e che dietro a tutte i racconti ci fosse un filo conduttore che è il sentire femminile, fortemente accentuato e sottolineato, il distacco dalla propria terra, il ritorno, l’emancipazione. Possiamo parlare di “Non dire madre” come di una serie di racconti autonomi che nascondono invece un romanzo?
Dora Albanese: Molti critici hanno definito questa raccolta di racconti un vero e proprio romanzo a puntate, per una serie di elementi anche sopra citati. Il filo conduttore del libro è la maternità, affrontata da personaggi tutti diversi per età e luoghi: si passa infatti da un Sud arcaico ad una Roma forse troppo moderna. Va bene dunque l’idea del romanzo, anche se sono molto legata alla forma del racconto, provenendo da una cultura contadina, in cui il racconto, se pur orale, è il mezzo più importante attraverso cui la gente ha sempre potuto comunicare paure, fantasie, suggestioni, desideri nascosti, e allontanarsi dalla solitudine e dal silenzio.

Giuseppe Merico:
Ripensando ai racconti “Tutto sbagliato” e “Lo zio d’America” mi pare di scorgere queste figure maschili come soffocate da un velo di inadeguatezza, di fragilità. In “Tutto sbagliato”, il coprotagonista dal nome di Carlo decide di cambiare sesso, “di poter diventare Carla, anzi Carlotta, e riuscire a togliersi dalla faccia il volto di suo padre, e cancellare per sempre quei lineamenti che gli hanno fatto male”. In “Lo zio d’America” parli dell’uomo che non c’è, una figura affascinante che si affaccia pieno di impeto, quasi splendente, nella vita di una ragazza che trascorre le vacanze d’agosto a Stigliano, in Lucania, per poi sparire e ricomparire anni dopo, malato. Ti chiedo se queste figure maschili abbiano una qualche forma di potenza evocativa contrapposta alla forza matrilineare ampiamente sviluppata nella raccolta.
Dora Albanese: Ho cercato, nel raccontare alcune “vite maschili” di fare emergere un altro tipo di fragilità, diversa da quella femminile, che è sicuramente più fisica e feroce. La fragilità maschile che traspare dalla mie pagine è piena di silenzi e di rinunce, satura di tanti, forse troppi piccoli gesti: come nel caso dell’uomo che non c’è, oppure fatta da “attacchi di panico” intesi come “scosse salva vita”, come nel caso del racconto “Tutto sbagliato”. Faccio emergere le debolezze di chi è destinato a “generare” – la donna – e di chi è condannato ad essere per sempre “generato”, – l’uomo –.

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Dora Albanese è nata a Matera nel 1985. Dal 2004 vive a Roma, dove studia antropologia. Ha pubblicato racconti su riviste e quotidiani. Questo è il suo primo libro. L’autrice, martedì 15 dicembre 2009, sarà ospite della rassegna Dalla A allo Zammù (via Saragozza 32/a, Bologna)

h. 20.30 :: Hacca: progetto, catalogo e aperitivo
interventi di Francesca Chiappa, Andrea Di Consoli, Maurizio Ceccato

21.30 :: Dora Albanese, Non dire madre (Hacca) – introducono Barbara Gozzi e Giuseppe Merico
Prepotente come l’esordio di questo romanzo, di bellezza pari all’intensità e alla violenza dei sentimenti di una madre, della madre che racconta cosa significa dare alla luce un bambino, e cosa significa avere diciannove anni, in quel momento, ricordo d’aver letto poco, negli ultimi anni. Forse niente.
(Gianfranco Franchi | Lankelot.eu)

a domanda risponde Ilaria Giannini

Antonio Tirelli :: Sono molti gli studiosi – psicologi, sociologi, etc. – che ultimamente indagano i tortuosi territori dell’amore.
Il tuo libro parla di relazioni problematiche, in alcuni tratti estreme, almeno sotto il punto di vista delle ricadute emotive sui protagonisti. Questa problematicità è un’invenzione letteraria o una caratteristica reale dei rapporti sociali odierni?

Ilaria Giannini :: Non avendo ambizioni da sociologa ma solo da scrittrice non posso testimoniare se questa problematicità sia un dato di fatto nella maggior parte delle relazioni che si vivono nel cosiddetto mondo reale. In Facciamo finta che sia per sempre ho voluto declinare il tema dei rapporti d’amore in diverse storie e personaggi che hanno un unico denominatore comune: provare un sentimento forte e non essere maturi per gestirne le conseguenze, per questo i loro rapporti sono problematici e instabili. Credo che quando una storia d’amore non si limita all’aspetto di facciata ma in qualche modo riesce a toccare la nostra interiorità e a scoperchiare le nostre debolezze diventa in ogni caso estrema perché ci costringe ad affrontare noi stessi.
Un compito molto difficile da cui i miei personaggi tentano di fuggire fino alla fine ma che è l’unica strada per crescere sia singolarmente che come coppia.

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Ilaria Giannini è nata nel 1982 a Pietrasanta (Lucca). Laureata in Scienze politiche, vive e lavora a Firenze come giornalista. Ha pubblicato un racconto nell’antologia Scrittura mista (Edizioni ETS) e nelle antologie di alcuni premi nazionali di poesia. Cura la rubrica letteraria Catching in the rye sul blog collettivo Avantopop.net e partecipa al progetto SIC – Scrittura Industriale Collettiva. Il 21 aprile 2009 è uscito  per Intermezzi Editore Facciamo finta che sia per sempre, il suo primo romanzo.

Ilaria Giannini, martedì 24 novembre 2009, sarà ospite della rassegna Dalla A allo Zammù (via Saragozza 32/a, Bologna)

h. 19.30 :: Intermezzi Editore: progetto, catalogo e aperitivo
dal WebSite Horror al Mostro della piscina di Marco Candida passando per Io volevo Ringo Starr di Daniele Pasquini.
interventi di Chiara Fattori, Daniele Pasquini, Gianluca Morozzi, Antonio Tirelli

h. 21.30 :: Ilaria Giannini, Facciamo finta che sia per sempre (Intermezzi Editore) – introducono Antonio Tirelli e Marco Nardini
Nicole è ossessionata dal suo passato. Martina è innamorata di lei. Stefano è uno psicologo affetto da manie di grandezza. Paolo è morto in uno strano incidente stradale. Quattro grandi amori, quattro solitudini che si rincorrono nella malinconica bellezza della Versilia. Quattro anime alla ricerca di un qualcosa che dia un senso alle loro vite. Tutti puntano alto, qualcuno gioca sporco, nessuno vince.

a domanda risponde Gherardo Bortolotti

Antonio Tirelli: Nell’ambito della narrativa italiana esiste ancora la capacità o la volontà di sperimentare con cognizione di causa?

Gherardo Bortolotti: Devo dire che la tua domanda mi mette un po’ in difficoltà, dato che non seguo in modo sistematico la produzione corrente e quindi non ho un’immagine della narrativa italiana sufficiente a farmi dire quali sono le linee di sviluppo in corso, quali aree sono più dinamiche e quali invece ristagnano.
Chiarita questa cosa, ti posso dire che la mia impressione (perché, appunto, è di questo che si tratta) è che più che la mancanza di una volontà o di una capacità di sperimentazione ci sia una specie di fortissima interiorizzazione, da parte degli autori, dei meccanismi del mercato editoriale. Cioè: mi sembra che molti autori si pongano il problema di utilizzare moduli alternativi alla narrazione tradizionale e che riescano magari a portare avanti, in alcune sedi, una ricerca di questo tipo. Tuttavia, nel momento in cui si pongono la questione di “pubblicare un libro”, ecco che sentono come strada obbligata la scrittura di un romanzo o di una raccolta di racconti. Come se davvero non ci potesse essere altro! Ed è in questo che vedo un’interiorizzazione delle regole di un mercato editoriale che è sempre più irrigidito su alcune distinzioni che, a loro volta, più ancora che di genere letterario mi sembrano merceologiche, con una specifica targetizzazione del pubblico. E la mia impressione è che questa normalizzazione da parte del mercato è tanto più forte quanto più è debole, come nel caso italiano, il mercato stesso.
Sia chiaro, sto parlando in termini generali. Tant’è che proposte interessanti ed eterodosse, per così dire, non sono mancate negli ultimi anni (da Nove a Moresco, per esempio). D’altra parte, la stessa collana Arno in cui appare anche il mio testo, pubblicata da Lavieri e curata da Domenico Pinto, può dare parecchi esempi (da Marco Palasciano a Giovanni Cossu e Maurizio Rossi). E, infine, se le mie stesse scarse letture hanno avuto la fortuna di incontrare testi come Neuropa di Gianluca Gigliozzi, Personaggi precari di Vanni Santoni o Limbo mobile di Ugo Coppari, direi che di cose interessanti in giro ce ne sono!
Quindi, al di là delle considerazioni che facevo prima, sicuramente una serie di ricerche sono in corso e credo proprio che rispecchino la volontà e la capacità di sperimentare di diversi autori italiani. Quello su cui dovremmo interrogarci, piuttosto, è se queste ricerche possono ottenere una visibilità maggiore e se riescono a fornire ai lettori gli strumenti adeguati a gestire le proprie esperienze – in un mondo in cui è sempre più difficile ricondurre gli eventi ad una trama chiara e coerente, in cui la soggettività è sempre più scomposta ed in cui la nostra percezione del tempo è sempre meno lineare.

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Gherardo Bortolotti | http://www.bgmole.wordpress.com
Nel 2005 ha pubblicato l’e-book Canopo (Cepollaro E-dizioni), nel 2007 la plaquette Soluzioni binarie (La camera verde) e il wee-chap tracce per dusie 103-197 per <dusie.org>. Con Michele Zaffarano cura la collana «Chapbooks» per Arcipelago Edizioni. È tra i fondatori e curatori del blog di traduzioni e letteratura sperimentale <gammm.org>.
Il 27 ottobre 2009, nei locali di Zammù a Bologna, aprirà la nuova stagione letteraria della Casa Lettrice Malicuvata con il suo ultimo libro Tecniche di basso livello (Lavieri edizioni).
L’autore sarà introdotto dall’editore Marcello Buonomo e dal nostro Antonio Tirelli.

Passaggi di Paolo Mascheri

Fabrizio Bolognesi: I personaggi principali de Il Gregario sembrano attraversati da una certa solitudine di fondo, accompagnata spesso dall’incapacità di essere compresi dal prossimo. Quanto, secondo te, questa condizione psicologica è strettamente legata, in un rapporto di causa ed effetto, con la società del benessere?
Paolo Mascheri: No, non credo che questa solitudine sia connessa alla società del benessere. E per quella che è la mia idea di letteratura non ho grande interesse a scrivere romanzi sulla società e sul paese. Il mio interesse è focalizzato sull’uomo, sulla natura dei rapporti, dei legami, sulla fragilità del corpo umano.

Gianfranco Franchi: Caro Paolo, sono passati tanti anni dal tuo esordio, Poliuretano. Io ho la sensazione che un bel giorno tornerò a leggere tuoi racconti, e credo proprio che si tratterà di un libro formidabile. Posso sperare?
Paolo Mascheri: Caro Gianfranco, lei è molto gentile. Ma sa benissimo come la penso. Pubblicherò qualcosa di nuovo- un romanzo o dei racconti- solo se reputerò il lavoro all’altezza dello standard prefisso, altrimenti potrò benissimo starmene a casa per i prossimi anni. Credo che dopo una pubblicazione ci sia sempre la necessità di tempo per migliorare e studiare e per disintossicarsi dal mondo editoriale.

Gianfranco Franchi:
Caro Paolo, tanti anni fa hai scritto che prima di conoscermi pensavi che io fossi una testa di cazzo. Adesso, sei anni dopo, sei tornato sui tuoi passi? Quanto a me, sai benissimo come la penso.
Paolo Mascheri: Gentile Franchi, sa benissimo che è stata quella famosa perifrasi a lanciare il suo Disorder… Non capisco che senso abbia rivangare ora, per giunta in pubblico, cose dal sottoscritto scritte anni e anni fa!

Passaggi di Vanni Santoni

Gianluca Liguori: I personaggi de Gli Interessi in comune, alla fine del racconto, escono tutti, in qualche modo, sconfitti. Si adagiano, si adattano, a quello che la vita gli lascia. Percepisco un richiamo evidente a quest’epoca di incertezza sul futuro. Che speranze ci sono, per loro?
Vanni Santoni: Personalmente non la vedo come una uscita troppo negativa, almeno rispetto a cosa la società offre loro. Prendiamo il Paride, quando Iacopo lo ritrova che lavora al bowling pensa “poveraccio” ma in realtà tornare a lavorare nella propria comunità locale una volta era la cosa più normale del mondo. C’è come un’illusione, tipica della contemporaneità, secondo la quale dovremmo finire tutti a fare gli art director a Berlino.
Parlando dei tre personaggi che troviamo in chiusura, Iacopo, Malpa, Dimpe, non mi pare che si possano in alcun modo definire sconfitti, anzi: quel riveder le stelle (in acido, quindi impenitenti e anzi fieri dei propri viaggi) prelude a una serena accettazione dell’età adulta, e sicuramente sono a quel punto attrezzati per affrontarla. Semplicemente, ci sono arrivati più tardi, ma dal loro ghigno viene quasi da pensare che ne sia valsa la pena.
Ci sono gli sconfitti, certo, penso a Mimmo, Sandrone, Loriano… In questi casi non ci sono grosse speranze (nel caso di Loriano nessuna, ovviamente) ma il problema è che speranze (nel senso: speranze di fare qualcosa di diverso da avere un lavoraccio trovarsi una donna e crescere i figli con l’aiuto dei genitori) non ne hanno mai avute dalla nascita, semplicemente si è rotta l’illusione.
C’è infine il Mella. Che fine ha fatto? Vittoria o sconfitta? Tra i lettori che mi hanno scritto c’è chi dice sia morto, chi lo vuole stimato professionista con figli. Di certo ha trasceso la materia letteraria e fa parte del mondo esterno al libro, quello di quel sustrato di leggende che fanno da mito di fondazione al gruppo stesso suo e dei suoi amici.

Gianluca Liguori: Trascorrono dieci anni dal primo all’ultimo viaggio con l’LSD dei protagonisti. Succedono cose, riflessioni, esperienze, si vive. Mi sembra una costante che accompagna l’intero scorrere del romanzo. Qual è il tuo personale rapporto col tempo, con lo scorrere del tempo?
Vanni Santoni: Se parliamo a livello di pura speculazione filosofica, credo che il tempo sia una dimensione come le altre, solo che non abbiamo la stessa libertà di movimento (il mio pensiero lo metto in bocca a Iacopo nel capitolo dedicato alla salvia).
A livello letterario, sì, mi interessano i tempi lunghi, anche nel nuovo romanzo che sto scrivendo i personaggi si muovono in un arco temporale piuttosto vasto. Forse è una reazione rispetto a Personaggi precari, dove ogni personaggio è sempre preso in un instante singolo e cristallizzato. Sicuramente mi interessano molto quei cambi sottili nella personalità e nella visione del mondo che sono più debitori del mero scorrere del tempo che di questo o quell’evento.

Roberta Ragona: Si legge spesso il tuo nome quando si parla di autori che vedono di buon occhio il copyleft; Personaggi precari era stato presentato anche al Copyleft Festival in quel di Arezzo. Come mai invece Gli interessi in comune è uscito sotto copyright?
Vanni Santoni: Ho proposto il copyleft ma l’editore si è opposto. Purtroppo nell’editoria italiana, anche quella più grande e attenta al nuovo, esiste tutt’ora un grosso (e a mio avviso dannoso) pregiudizio nei confronti del copyleft. Il perché è molto semplice: si teme – si è terrorizzati – di vendere meno.
Ora, questo è un assunto del tutto sbagliato, poiché l’oggetto-libro, a differenza del CD, non viene riprodotto semplicemente copiandone il contenuto (altrimenti anche le fotocopie sarebbero una seria minaccia alla narrativa… suvvia!), ma anche dannoso in quanto la possibilità di scaricare gratuitamente un testo ha la medesima esatta funzione dello “sbirciare” in libreria: se poi il libro piace, lo si compra. Per fare un esempio, un recente studio calcolava che l’autore più “piratato” al mondo, Paulo Coelho, aveva venduto circa un milione di copie in più grazie alla circolazione su Internet dei suoi testi fotografati e reimpaginati in pdf. Restando in casa nostra, gli Wu Ming, che hanno potuto “imporre” il copyleft alla Einaudi grazie al loro esordio letterario come parte di Luther Blissett, progetto che includeva tra le proprie “bandiere” quella della libera circolazione del sapere, sono una dimostrazione evidente dell’assurdità di tale paura: i loro libri sono tutti liberamente scaricabili, eppure vendono che è un piacere.
Tutto questo senza neanche entrare nel merito delle possibilità di studio e ricerca che offrirebbero biblioteche del tutto “aperte”.

Passaggi di Gianluca Morozzi

Vanni Santoni: Racconta la tua formazione fumettistica, dagli albori a oggi, e come ha influenzato la stesura di “Colui che gli dei vogliono distruggere”.
Gianluca Morozzi: Il mio rapporto maniacale e morboso con i fumetti è nato il giorno in cui mio nonno mi ha regalato un numero dell’Uomo Ragno (editoriale Corno) intitolato “Faccia a faccia con il morto”. Avevo sei anni. Da allora ho collezionato e colleziono ancora ogni albo e volume possibile che abbia a che vedere con i supereroi Marvel e Dc. Nel frattempo, leggendo i supereroi, ho scoperto alcuni geni assoluti come Grant Morrison e il grandissimo Alan Moore, di cui ho letto tutto il leggibile, ho scoperto Peter Bagge e Love and Rockets… e, soprattutto, un giorno mi è capitato in mano un volumetto di Andrea Pazienza, e quel giorno mi sono chiesto come avevo fatto sin lì a vivere senza aver letto quel genio. Per cui, a cadenza più o meno biennale, mi ricompro le nuove edizioni di Pertini, o di Pompeo, o di Pentothal, sempre sperando in mezza tavola inedita…
In Colui che gli dei vogliono distruggere è entrato un po’ tutto… il supereroe alla Alan Moore (Supreme, o Tom Strong), i cinquant’anni di congelamento (Capitan America), le origini risalenti all’ottocento (Wolverine), accenni alla Legione dei Supereroi… e le sottotrame eterne che si trascinano numero dopo numero, con l’arcinemico che trama nell’ombra pronto a colpire…

Vanni Santoni: Tu scrivi un sacco di libri. Ergo ti sarai già chiesto qual è il ruolo dello scrittore oggi. Diccelo.
Gianluca  Morozzi: In realtà non me lo sono chiesto affatto. Se inizio a pormi domande su quello che è il ruolo dello scrittore e le responsabilità dello scrittore nei confronti del mondo e il peso dello scrittore di fronte alla società, inizio ad andare in crisi e a scrivere delle porcate allucinanti. Preferisco andare avanti come un treno, scrivere senza pensare a quel che significa ciò che sto scrivendo per l’universo-mondo ma solo quel che significa per i miei lettori, per me e per il mio editore. Per fare discorsi seri, ci sarà tempo più avanti. Intorno al trentacinquesimo romanzo.