Categoria: poesia

Francesca Dondoglio | Diari

All’improvviso un violino stonò, come una speranza fuori posto.
Complice la sincronicità, gli venne in mente quel libro in cui aveva letto che nelle tribù americane gli iniziati si spingevano digiuni fino ai nidi delle aquile per ricevere un’allucinazione redentrice. Quale ricompensa giustificava lo sforzo e la pena per raggiungerlo? Conosce solo chi l’ha
fatto. Non sapeva spiegarselo, ma lui, che di pensieri ad alta quota ne aveva pieni gli zigomi, poteva averne una mezza idea. Lassù noi vediamo solo un vento rapinoso. Quaggiù solo babele di parole.

L’ora scoccò. Salutò la tenda e uscì.
Una volta in strada, fece il suo solito lungo respiro e alzò la testa a scrutare il cielo. Niente aquile in vista, solo il grido delle rondini incalzava, stonato il giusto, disperato quanto basta da sfiorare il magnifico.

Si fiondavano, come in un prodigio, pietre lanciate dai palazzi di fronte.

[ Diari, giugno 2022 ]

Senza titolo, 2023, acrilico e pastello su carta, 61x46cm, n° P-86

Flavia Cidonio | Cantilena

Non c’è verso che impari, no
mormora dritta,
non c’è verso me ne stia quieta,
visibile e riconoscibile
così come chi sa d’esserlo,
ciondolante
come un pino
che le radici ha nascoste.
Non c’è verso
che sia abbastanza soddisfatta
da attendere un seme che germoglia
o una promessa già marcia
da cui ricavare sensi
perché i soli frutti che conosco
sono quelli che ho piantato
io stessa
anche solo fra i pensieri
tutti quelli
che mi attraversano
come arterie
senza essere ricchi di sangue,
ma sono pochi, sono sempre
troppi pochi.

Ho la testa dura, ricevuta in dono
da radici di teste insospettabilmente
dure nello stesso punto
– le peggiori! –
di chi sa conoscere
un limite contingente
e proprio per questo
non se ne cura,
e proprio per questo
vi mostra rispetto
il mio è solo un piccolo disprezzo
generoso, in fondo
per ogni distanza

fra me e quel che amo,
fra me e quel che piango.

Alejandro M. | Palabras para un gran guerrero, un poeta, un mago, un hermano

Nada más empezar a escribirte salta una sonrisa para ti, gran guerrero.
Tú qué a cada rato ofreces grandes batallas con tu sable hecho de flores y tus botas gastadas de caminar por dónde no hay caminos delineados.
Apenas comenzar a conocerte tu corazón se reveló infinito y grande, de capacidades insospechadas, de energía de amor puro y de secretos dl universo.
Una vez te deshiciste de todas tus prendas y objetos para regalarte a la vida, para reír en la cima de la montaña, para jugarte todo y quemar las naves por amor. Y otra vez te fuiste gran guerrero a un lugar donde solo tú sabías dónde estaba, fuiste a mira la oscuridad de un océano y pudiste intuir la belleza salvaje del firmamento.
Dejaste por ahí tu armadura y te cubrirte con una capa hecha de estrellas y con perfume de incienso, y caminaste como un bendito loco, oh gran guerrero, para encontrar cobijo en la poesía, la pintura, la magia, una pequeña flor…
Tú corazón se convirtió en tu sendero y también es hoy y bien lo sabes, tu nave y tu barco. Has aprendido el noble arte de cabalgar dragones y de escuchar el canto más profundo de la noche, sigues ofreciendo hermosas batallas, compartiendo enseñanzas, dibujando sueños que se esconden cuando uno se sale del margen .
Te quiero mucho gran guerrero, por dar tanto, por ser quién eres, por ayudar a crecer, por desafiar la mayoría de las veces con sonrisa picarona, por amar profundamente y por sentir el pulso y la frecuencia divina.
Ahí donde has dejado tu sable de flores crece un bosque y ahí al pie de un árbol, hay un ser de luz meditando, sonriendo, silbando . Ahí estás tú hermano, que maravilla!
Te amo mucho

*

Parole per un grande guerriero, un poeta, un mago, un fratello

Non appena comincio a scriverti, un sorriso salta fuori per te, grande guerriero.
Tu che spesso combatti grandi battaglie con la tua spada di fiori e i tuoi stivali consumati dopo aver camminato dove non ci sono sentieri tracciati.
Appena ho cominciato a conoscerti, il tuo cuore si è rivelato infinito e grande, con capacità insospettate, con energia di puro amore e segreti dell’universo.
Una volta ti sei spogliato di tutti i tuoi vestiti e oggetti per darti alla vita, per ridere in cima alla montagna, per rischiare tutto e bruciare le navi per amore. E di nuovo sei andato, grande guerriero, in un luogo dove solo tu sapevi dov’era, sei andato a guardare l’oscurità di un oceano e hai potuto percepire la selvaggia bellezza del firmamento.
Lasciasti in giro la tua armatura e ti copristi con un mantello fatto di stelle e profumato d’incenso, e camminasti come un pazzo beato, oh grande guerriero, per trovare rifugio nella poesia, nella pittura, nella magia, in un piccolo fiore…
Il tuo cuore è diventato il tuo cammino ed è anche oggi, e lo sai bene, la tua nave e la tua barca. Hai appreso la nobile arte di cavalcare draghi e di ascoltare il canto più profondo della notte, continui a combattere bellissime battaglie, a condividere insegnamenti, a disegnare sogni che si nascondono quando si esce dal margine.
Ti amo moltissimo, grande guerriero, per aver dato così tanto, per essere quello che sei, per avermi aiutato a crescere, per aver sfidato il tempo con un sorriso furbo, perché possiedi le virtù di amare profondamente e di sentire il polso e la frequenza divina.
Là dove hai lasciato la tua spada di fiori cresce una foresta e là ai piedi di un albero c’è un essere di luce che medita, sorride, fischia… Eccoti fratello, che meraviglia!
Ti amo tanto

Simone Olla | Il mattino, goccia dopo goccia

e non so più come pulirlo questo amore così sporco.
sono fermo, bloccato, e lo riempio di amargura.
difendo così il mio stomaco dolente.
la mia carne sfibrata.
le gocce che sento non sono quelle di un rubinetto aperto.
goccia, il silenzio tuo ogni giorno
goccia d’uccelli sugli alberi a fischiettare risvegli
e nature morte.

non vedo più, non può essere:
le tue parole non riesco a leggerle.

ciò che non resta è già bruciato –
ho imparato anche questo.
e gli avanzi della notte li bruceremo domani.

(2010)

Guido Catalano | sì, io ho paura

sì, io ho paura
di te
di me
degl’altri
dei baci
dei corpi
di amarti
delle parole
di dirti
di sentirmi dirti
di fare
di costruire
di stare
di patteggiare
di curarti
di esserci
ho paura
lo ammetto
lo so
e quindi?
come facciamo?
io non lo so
tu sì?
io no
io sogno di orologi fermi non sciolti
ho paura
lo ammetto
io sono un uomo
ho un cazzo
non ho una moto
non ho una macchina
forse mi piaci
forse possiamo
forse ti voglio bene
forse ti amo
io non lo so

sì, io ho paura

Leonardo Sultato | Generazione X 1.1

Cioè non c’è più storia
siamo nell’attimo, nel battito
cardiaco del basso
nell’ondulare delle situazioni
occupiamo spazi, rifiuti
curiamo giardini di scorie
abbiamo la nostra sintassi
senza congiuntivi o futuri
siamo canguri, universi
unicellulari, paralleli
come fili di tubi

non è che non comunichiamo
è che mancano le vibrazioni
quando si spengono luci
e sintetizzatori e si rimane
soli: un auto, un cellulare
200 numeri, non sai chi chiamare

e in tanto il cielo è in fregola
che si sfonda, la keta quella sciama

e ti rimane un buco, un accesso
la ferita che s’allarga
e ti tiene connesso.

Gabriele Zobele | Di polli, di genti e di bestiame

Anche l’amore è una fabbrica dismessa o che attende d’esser dislocata
in zone di migliore investimento, a mercati più propizi. O forse in Polonia
o in Romania dove la mano d’opera costa meno.
Qui ci si ama per transizioni, per scambi portuali
e valutazioni di convenienza da definirsi
a fine mese in relazioni di bilancio.
– Mi costerà vederti, lasciarti
avrà un suo prezzo, cara.
– Cara? Quanto cara?
– Tanto cara che il mio dolore ha per valuta il pianto.
– Ti comprerò dei fazzoletti.

(Si pensava, all’inizio, che la gente mai
avrebbe smesso d’incontrarsi, che mai
avrebbe smesso di far figli, o anche solo
di amarsi per solitudine: col sesso,
lo si pensava un guadagno inesauribile,
un moto incessante di produzione di liquidi,
le tassazioni avrebbero potuto arrivare alle stelle e pochi
forse solo i preti, si sarebbero opposti…).

Ma saturam lancem pecunia fecit.
Il capitalismo è come un marito intransigente
che vorrebbe la sua donna gli facesse
un figlio a notte, perché lavori
un ettaro di campo in più di quello
che già suo padre lavora, e poi magari
due a notte, perché lavori assieme all’altro
due ettari di campo, e poi quattro a notte,
ché nel coltivo ci stiano in quattro,
così che gli ettari salgano a otto,
poi otto a notte e così via, finché
il coltivato equivalga il coltivabile.
Ma se il contadino e la moglie e tutti i figli
han già dimenticato il tormento della fame,
si sarà accumulata tanta roba
che il contadino e la moglie e tutti i figli
han cominciato a domandarsi, ognuno per suo conto:
che faremo di tutto questo grano?
Rispondendosi, ognuno per suo conto
si dirà: farsi venire una gran fame.
Occorrerà far marcire delle messi,
all’inizio, per far tornare nuovamente
un po’ di paura per quel suo morso, così tipicamente
stretto alla pancia, ma arricchito, stavolta,
di una nota in sottofondo, come un
ronzio d’ape entrata nell’orecchio,
di quelle che imbizzarriscono i cavalli.
sarà la volta d’una nuova fame:
meno imperiosa della prima,
già versata in sofferenza: sarà
la fame di potere, che ha l’invidia
per pungolo e la miseria come cappio.
E occorrerà dosare. Dosare con pazienza,
ad ognuno in base a quanta già ne aveva,
di fortuna o di miseria, limitandosi
a rincarare un po’ le dosi,
secondo calendari che ormai non appartengono
a nessun uomo, ma ad una legge
nata fuori, nell’eccesso, nelle riserve
nascoste nei granai, per quella seconda
fame di quei secondi, terzi, quarti accumuli.
La miseria di qualcuno vorrà dire
la fortuna di qualcun altro, e più una perdura
e non riesce a morte, più l’altra s’accresce.

Ed ecco allora i messi partire,
alla rinfusa, confusamente, prima, come conseguendo davvero un loro bisogno
sordido; più organizzati, poi, in comitive, a Rio de Janeiro, tra pensionati
che non capiscono e scattano gioiosi foto di continuo di loro
con quelle stesse bambine o anche più vecchie dai piedi sporchi di fango,
ormai prive di sgomento. Infine
business is business, but I want
a user-friendly business:
sweet, shiny, friendly business
tell me please you like my fitness
I don’t want to lose my meaning
so please tell me what’s your feeling

s’arrivò a regolarne il trasporto, come animali,
realizzando il più grande principio d’uguaglianza
nel libero scambio delle carni, nell’a volte identico, a volte persino sfavorevole
alla carne viva che non marcisce, tempo di percorrenza,
nel libero baratto, potremmo dire, di polli, di genti e di bestiame.
Stanchi propiziatori d’autostrade, procediamo così in silenzio, come in coda, la radio accesa,
sulle ampie strade dell’amore: guardiamo chi è di fianco a noi, su un’altra fila, che
già pregustando d’essere amato in qualche modo,
tira fuori il portafogli, per pagare il biglietto. saluta l’inserviente. è partito.

Alberto Masala | L’arte non può parlare di libertà

Vent’anni. Tanti ne sono passati dal primo dialogo.

Con Alessandro Giammei e Marzia D’Amico posso ormai tentare di trarre delle parziali deduzioni. Già dal 1992, nell’incontro con Luca Panzavolta, e poi nel 2002 con Antonio Barocci, ci mettevamo l’obiettivo di portare il discorso all’essenziale perché potesse fornire stimoli di consapevolezza per i più giovani, soprattutto quelli che agiscono in ambito artistico. Le domande di allora restano immutate: perché si fa arte, a che serve, a chi serve.

Lungi dal dare soluzioni con la mia esperienza personale, credo però di aver aperto dei punti di discussione necessari. Dunque: è possibile smuovere la coscienza del gesto artistico, interrogarsi sui meccanismi che lo condizionano, rendere discutibili i processi, spostare il punto di vista?

Un dato necessario al lettore è non dimenticare che io non sono un filosofo, ma un poeta, cioè uno che ha scelto la pratica dell’arte come metodo dello spirito per poter coltivare ciò che fonda una possibile presenza nel mondo: le tensioni di liberazione, autonomia, bellezza… perché restare umani sia l’obiettivo che guida la direzione di ogni scelta ed etico resti il paradigma di ogni gesto. Governare il difficile rapporto con l’Ego mentre si è credibili socialmente nella propria pratica di dissidenza, testimoniare autonomia interiore… questo è il compito più difficile dell’artista. Ma anche il più necessario affinché non si resti vittima funzionale e manovrata dal meccanismo stesso. La marginalità viene dipinta come fastidioso gradino di passaggio per arrivare poi al successo. Ma gli artisti veri non sono mai “marginali”. Saper restare al bordo dello sciame, rom­perne la regola matematica, saltarne i confini con­taminando viralmente anche l’oltre, richiede grande tecnica e consapevolezza.

Una fortuna che mi assiste in questa condizione è sapere di essere un Indio, un Nativo appartenente a una cultura millenaria. Tutti gli esseri umani lo sono, senza dubbi, ma io, avendo la sorte di essere nato Sardo, sono facilitato nel riconoscere le matrici di molti miei comportamenti. Sono dotato di una lingua ‘altra’ ed ho un metro del mondo che non prescinde mai dalla mia insularità congenita: provengo da una terra riconoscibile che ha confini certi. Ogni mio spostamento nel mondo può avvenire solo se valico questi confini… e lo posso fare se sono dotato di un’adeguata attrezzatura psicologica. Per l’isolano ogni trasferimento verso la terraferma diviene il vero passaggio di una barriera reale, tangibile. Nel poter concretamente riconoscere e affrontare la barriera sta il vantaggio: sapere che c’è sempre un oltre, un distacco e il salto, sono condizioni necessarie a cui veniamo inconsciamente addestrati fin dalla nascita.

In più, la consapevolezza dell’Indio è anche il metro necessario per convivere armonicamente su ogni terra e con i suoi abitanti… è da sperare che ognuno, in ogni contesto, ne acquisisca i parametri così da formare una coscienza individuale e collettiva non prevaricatrice. E queste parole già contengono Utopia.

Vengo da una generazione post-bellica. Abbiamo visto i nostri genitori ricostruire dal nulla e consolidare lentamente le loro piccole conquiste sociali. Guardavano avanti, ma sempre con uno sguardo prudente e timoroso – ancora atterrito dall’esperienza della dittatura e della guerra – che non ci bastava. Abbiamo inventato un altro sguardo, visionario, più rapido ed esigente, irriducibile e altrettanto tenace, ma nella direzione dei sogni, dell’oltre, dello sconosciuto.

Eravamo dei Desideranti, dei coltivatori di Utopia. E producevamo un’Epica del Desiderio. La psicologia necessaria a questa pratica genera un pensiero che, per poter ampliare la conoscenza e la coscienza, necessita di progettare rapportandosi nello Spazio inteso come categoria fondamentale nell’approccio col reale. Creare spazio, estenderlo e difenderlo dalle restrizioni era il nostro indiscutibile quotidiano che dava origine a progetti collettivi, universali.

Così negli anni successivi siamo stati puniti, incorrendo in una sanguinosa restaurazione. Qui non voglio rievocare, ricostruire storicamente, ma solo ricordare quante e quali energie siano state spente con le strategie dell’eroina e della tensione. Anni di Piombo, di dolore senza catarsi, che hanno lasciato ombre inconsolate.

Attraverso questo che possiamo chiamare un vero e proprio genocidio generazionale, si è giunti oggi alla generazione degli Aspettanti.

A quella precedente, per decadimenti progressivi e apparentemente ineluttabili, si è sostituita una nuova Epica delle Merci.

Possedere, apparire, arrivare, sono diventati i paradigmi dell’azione che, da collettiva, si è ridotta a progetto personale, ad aspettativa individuale. Così la categoria del Pensiero ha ceduto forza a vantaggio di quella dello Sguardo. La volontà individuale, bulimica e paradossalmente retinica, è oggi misurabile in pixels. Ma l’aspetto più drammatico è la restrizione della prospettiva verso l’individualismo che, riformulati i parametri dell’approccio col reale, ha cominciato a riprodursi acriticamente nelle condizioni imposte dal Sistema. In una società così debilitata, ecco morire l’Utopia dello Spazio e risorgere il Tempo come percezione e parametro esistenziale. Ecco il Tempo imporsi su di noi con tutta la sua angoscia rinnovata.

Questa società, nella migliore delle ipotesi, è in grado soltanto di produrre incredibili giustificazioni per la sua marcia inarrestata che procede verso la distopia, la società indesiderabile dell’immaginazione letteraria e cinematografica. Ciò che appariva fantascientifico diventa concreta previsione del reale. L’Utopia resta, ma, rovesciata come Hitler rovesciò la svastica, viene utilizzata soltanto da coloro a cui è ancora permessa: il Sistema di Controllo che costruirà maglie sempre più oppressive e totalitarie.

Viviamo in epoca di crisi finale del progetto capitalista. L’imperialismo ha impiegato un secolo per raggiungere la sua metastasi e sta causando drammi irreparabili, genocidi, conflitti etnici, guerre mascherate con ridicole quanto insostenibili ipotesi ‘civilizzatrici’. Ovunque vengono progressivamente abbattuti i parametri dei diritti sul lavoro e sul welfare. Ma intanto la coscienza ambientalista e anticolonialista procede dal basso e si ricomincia a parlare di dignità. Il pensiero della decrescita avanza nelle coscienze man mano che si propagano gli effetti del fallimento della crescita, l’implosione dell’apparente infinità dell’evoluzione dei consumi. La domanda, ampliata in modo esponenziale, ha raggiunto la saturazione esprimendo merce il cui costo principale, come già dicevo, è quello dell’induzione di massa all’acquisto, la creazione del bisogno, la promozione della merce stessa.

L’arte intanto viene utilmente ricondotta a “spettacolo” funzionale al consenso dando così ragioni per ripensare alle analisi di Debord, Benjamin, Foucault. E quando, come diceva appunto Debord, «il sogno diventa sonno», non si sente più parlare di progetti collettivi di pensiero, anzi, si osserva sempre più diffusamente il crescere di una sorta di neo-manierismo superficialmente emozionale e profondamente egotico, mentre gli artisti lavorano come non mai alla costruzione della propria carriera personale. In questo impoverimento delle fonti, e seguendo la stessa direzione dell’industria, anche l’arte investe nella propria apparenza: il marketing diventa paradigma rendendo simulacro l’oggetto che vede così ridotta la propria capacità storica, ovvero la possibilità di sostanziare utilità e pensiero durevoli.

E mentre fino agli anni ’80 l’arte immateriale di Fluxus e Beuys rappresentava una forma di resistenza del pensiero, una barriera alla mercificazione dell’opera, oggi è la società che, diventando essa stessa immateriale, ha ugualmente superato l’oggetto, ma per adottarne la rappresentazione simbolica, il fenomeno svuotato di pensiero: dalla sostanza all’evidenza, dall’interiorità alla forma e al suo possesso.

Il prodotto artistico può ancora più agevolmente confortare il Sistema, non producendo altro che uno shock (Benjamin), ma di sempre minore durata e maggiore prevedibilità, in cui la vera qualità dell’opera è la fruttuosa gestione economica e mediatica dello scandalo: far esplodere tutto nell’apparenza per non spostare mai niente nella realtà.

Lo psicodramma è in atto. Agli artisti viene assegnato il compito di testimoniare una libertà fittizia, nella realtà duramente negata. È concessa perfino la facoltà di interpretare in maniera esorcizzante le peggiori pulsioni della società. Tutto è possibile, purché confinato nella decorativa sfera della rappresentazione. Un’arte inoffensiva e ben governabile, utile a confermare lo status quo del potere, ulteriormente rianimato dal rinnovato carisma degli apparati istituzionali. I Musei, gli Eventi, i circenses operano nella castrazione di ogni spinta non omologata, nel silenzio di una critica sociale e culturale (quella più coraggiosa è diventata rara e spesso forzata all’invisibilità), hanno buon gioco nel formare l’utente-modello: intimorito, indotto alla passività, allo sguardo irresponsabile, inebetito nella contemplazione del feticcio, distratto dalla vorticosa sovraesposizione agli stimoli. All’eccesso di visualità si risponde con un’accresciuta incapacità di vedere. È l’ascesa del regno del Virtuale sostenuto dall’affermazione dello zapping-pensiero.

Sto ovviamente parlando dell’arte che viene ammessa alla visibilità e che può tollerare anche fenomeni divergenti, purché provenienti da lontane aree geografiche. Anzi, se restano concettualmente e geograficamente distanti nella loro collocazione di denuncia, servono, loro malgrado, a rassicurare il Moralismo Occidentale nel giudizio su altri sistemi di vita. L’opera critica nata in Iran o in Cina, sebbene dimostri grande forza espressiva, giusti contenuti, onestà intellettuale… una volta immessa nel mercato serve a confortare The Western Civilization.

E le dissidenze nate in loco? Qualora acquistassero – per loro esclusivo merito – spessore e visibilità mediatica, vengono invece inglobate, come da sempre, col meccanismo ben oliato della gloria e della fama.

E solo pochi infine resistono: i più per ideologia romantica, alcuni per consapevolezza etica o politica.

In parallelo, nella società, la dipendenza dal bisogno acquista un’estensione ipertrofica pur smascherata continuamente dalla propria matrice simulativa. E nella vita irrompe la rappresentazione della vita in dolorosa e tangibile discordanza con la vita reale: emergono i bisogni concreti delle persone, ridotte in una povertà sempre più estesa e capillare, ma che continuano ad assumere la cultura di rutilanti modelli televisivi di successo e apparenza.

Immigrati che arrivano a ondate per l’impoverimento causato dalle nostre politiche economiche di sfruttamento coloniale, profughi che fuggono da guerre e genocidi, homeless, diversi… e poi le catastrofi, quelle di origine umana e quelle naturali, da noi stessi provocate per un cattivo uso del territorio… tutto questo costituisce un fastidioso disturbo visivo al programma diffuso dal Sistema di Controllo Sociale. Complicanti fenomeni da occultare e respingere. È così che diviene feroce la difesa del privilegio nel teatro dell’Apparenza.

La Pedagogia del Sistema agisce formando individui ad esso funzionali, educati secondo regole morali e ideologiche. È la costituzione artificialmente forzata dell’identità che viene proposta dai sistemi.

Ormai sono gli stessi governanti a proporre un disegno egoico sostenendo l’idea dell’amministrazione della cosa pubblica secondo il modello dell’impresa privata, del profitto. Come se il godimento dei diritti e del welfare fossero un costo, un peso, un fastidio da eliminare.

In queste condizioni, unica forma di resistenza è la pratica quotidiana, personale e collettiva, della decolonizzazione, la riconquista dell’autonomia interiore a partire da noi stessi.

Spogliarsi dei modelli ideologici, inevitabilmente carichi di forme apparenti, per praticare modelli etici: l’arte è chiamata a questa funzione per potersi dimettere da una forzata condizione di funzionalità pedagogica, di rigenerazione dei Sistemi. Detto in parole semplici: l’arte non può parlare di libertà, ma deve invece parlare di liberazione.

Banale dire che è l’uso che si fa delle parole e non la vuota pronuncia di esse a connotarle nel reale: la parola libertà non porterebbe in sé valenze negative, ma viene appesantita nel momento stesso in cui la si proclama come principio morale. A quel punto si carica di ideologia vuota e opaca e impedisce artatamente l’approccio alla realtà.

Come già dicevo fin dalla prima intervista (1992), ci è possibile soltanto coltivare la direzione, la tensione verso le cose. Ma ogni tensione, per agganciarsi allo spirito di chi la trasporta e la testimonia, deve affrancarsi da ciò che la irrigidisce: il dogma della visione morale che sempre deriva da un potere che detta le regole morali per garantirsi la propria perpetuazione.

L’esempio più aderente ed esplicativo di questa attitudine è l’assegnazione aprioristica di un valore spirituale come il battesimo cristiano. Avviene quando l’individuo ancora non può esercitare il libero arbitrio, la scelta. Viene imposto ereditariamente e determina l’acquisizione incancellabile di un’identità. E non a caso qui si parla di identità. Mi riferisco a quella condizione di sterile immobilità, definitiva, anche nel senso che definisce, confina in un modello artificialmente predeterminato.

Noi insieme è la declinazione della quarta persona singolare e plurale in ogni comportamento collettivo che si dissocia dalla condizione manicheo-morale dell’identità scegliendo quella relativo-etica dell’appartenenza.

Intuisco che sia ancora poco chiara la differenza che ho scelto di frapporre a due concetti che spesso coincidono: Morale ed Etica. Per essere esplicito, riassumo l’esempio di Bauman in Società, etica, politica.[1]

L’uomo di Rousseau è per natura buono, l’uomo di Hobbes è cattivo, l’uomo di Bauman, quello che mi convince maggiormente, è sociale: né buono né cattivo. Da questa conclusione qualcuno potrebbe derivare che l’uomo è quindi morale per natura. Ed io resto inappagato da una tale semplificazione: la socialità è istintiva, animale, una dote funzionale alla difesa della specie; la moralità una sovrastruttura organizzativa. Da agnostico non posso accettare che esista un pensiero umano per natura che possa anticiparne la formulazione culturale. Sarebbe rischiosamente vicino ai concetti di assoluto e trascendente. Sono più portato ad ipotizzare un pensiero immanente che non possa precedere l’uomo: prima dell’esistenza dell’essere non può formularsi pensiero.

A queste condizioni, il pensiero morale si indirizza alla sistematizzazione della socialità e, nella sua peggiore applicazione, ha quindi una funzionalità concreta nella gestione del Sistema di potere, essendo mater certa di ogni integralismo.

Ora ritorno a Bauman per adottarne il geniale indizio che utilizza per rivestire l’Etica della sua capacità fondamentale: quella che consente all’uomo il poter dire no. La scelta, il libero arbitrio, la possibilità di selezionare fra le alternative, sono le costituenti dell’esistenza umana e della formazione della propria Etica, che, nell’idea che mi sono formato, non viene da un dogma assoluto e contiene in sé la coscienza di avere sempre possibilità di modificarsi, perfezionarsi nel percorso.

Non ha regole date. Quando le crea, può accettarle solo come regole di passaggio, temporanee stratificazioni che preparano allo stadio successivo di coscienza, dove si dissolveranno creando le basi dei comportamenti concreti.

La volontà che la alimenta è consapevole nell’organizzare le proprie tensioni quanto è distante dall’ego nel testimoniarle. Ad essa ci si accosta per scelta di appartenenza.

Ed è solo così che procediamo: prendendo parte, restando partigiani, appartenendo.

NOTE

[1] Zygmunt Bauman, Società, etica, politica, Raffaello Cortina, Milano 2002

Savina Dolores Massa | I segni degli uomini

Accarezzare una barba e sanguinare nella mano
l’addio
da riporre nell’armadio
con collezione inscatolata
culla infeltrita
da spolverare solo quando la si apre per spiare i fallimenti.

In una piccola scatola può starci un mondo
di ricordi rimpiccioliti,
perfino alberi di natale vedovi di partenze,
vele di barca in teca a foggia di bottiglia,
caratteri sbiaditi su carta che fu innamorata
e poi scordò il motivo,
Occhi di cane azzurro di Colombia
dedicato con una firma estroversa
estesa, abbracciante per uno scoppio d’occhi
senza attesa.

Accarezzare una barba e sanguinare nella mano
spostare l’abrasione alla gemella
contare le dita: dieci, come anni.

Valerio Nardoni | Ragioni di forza

Si fa severa negli anni
la perversa tensione
verso quanto ci impedirà
di procedere
nel divenire dello spirito, e che anzi
a poco a poco si avvicina, ci porge la mano sicura –
“è mia la colpa”, in qualche modo ci dice,
e il tramonto si allieta in toni caldi,
passa qualche uccellino…
 
Ma non sempre c’è modo di rinascere.
 
E c’è un motivo preciso,
se ne conosce il nome,
lo ripetono i vecchi,
perché è vero,
ognuno coi suoi arnesi
aggiusta le foglie al ramo, e alla poesia
basta un alito di insensibilità
per essere sciocca.
E non ha altre ragioni di forza.