Categoria: racconti

Francesco Satanassi | E se viene la guerra

Quando ero piccolo io, di fronte casa mia, c’era il circolo dei comunisti.
Che poi è diventato bar, poi balera, poi cinema, poi discoteca, poi night club e adesso ci sono i cinesi. I cinesi davanti casa mia hanno questo supernegozio che è come un supermercato di roba cinese che però non si mangia. Hanno tutto. Vestiti, penne, matite, soprammobili, giocattoli, oggetti per la casa, per il giardino, per il garage, per i capelli. Mettono anche un Babbo Natale finto sulla porta quando arrivano le feste.
I cinesi hanno questo super-supermercato che si chiama Le cose di Giulia e tu ci entri e ti prendi un colpo perché sono tutti cinesi quelli che ci lavorano e ti fa strano pensare che un cinese si chiami Giulia, invece è proprio così, perché la figlia-cinese del proprietario-cinese è nata in Italia e lui l’ha chiamata Giulia.
Mia zia, che è nata in Italia e si chiama Laura, quando viene a trovarci va sempre da Le cose di Giulia e compra delle robe che non servono a niente, poi viene a casa mia e le mette in giro.
Dice Guarda come ci sta bene qui e quando lo dice ci crede veramente perché noi facciamo le facce con i pensieri storti, ma lei non le vede mai. Fatto sta che un giorno ha comprato questa gabbia di legno con dentro questo uccellino di legno che cominciava a cantare tutte le volte che accendevi la televisione. E allora il mio babbo, che fa la voce grossa, l’ha preso e l’ha buttato. Dov’è finito l’uccellino? ha chiesto la zia, È volato via ha detto mio babbo cambiando canale. Ché ai suoi tempi non c’era mica Le cose di Giulia di fronte a casa, ai suoi tempi c’erano i tempi che “si stava meglio quando si stava peggio”, perché adesso non ci si capisce niente con ‘sti decoder digitali e una volta non c’era neanche il telecomando e la televisione, infatti quando mangiamo lui dice sempre Laila, che è mia mamma, metti sul tre che c’è il giornaleradio. Proprio così, lui lo chiama giornaleradio invece di telegiornale, come i sovietici che chiamavano cosmonauti gli astronauti. Ai suoi tempi, ai tempi di mio babbo, mica c’era la televisione e infatti tutti lo chiamavano così, il giornaleradio.

Quando era piccolo mio babbo, di fronte a casa mia, c’era il circolo dei comunisti e il ventotto ottobre, tutti gli anni, i comunisti prendevano su a e andavano a Predappio a fare a schiaffoni coi fascisti. Adesso i comunisti non ci vanno più a Predappio a fare a schiaffoni, però i fascisti ci vanno lo stesso a vedere il cimitero, comprare i souvenir e fare i cortei che non possono fare. Questi nuovi fascisti sono anche un po’ leghisti, mentre i comunisti sono sempre uguali e forse è per quello che non fanno più a schiaffoni davanti al cimitero. Chi lo sa.
Mio babbo, comunque, quando era giovane non abitava qui, però la domenica sera andava dietro al circolo dei comunisti, dove d’estate c’era il cinema e c’era il carretto che vendeva i cocomeri. Allora, mio babbo e i suoi amici – che io non so chi fossero – correva sullo spiazzo di ghiaia tra le sedie e passava vicino al carretto, faceva una gran cagnara e uno degli amici fregava un cocomero, poi scappavano per i campi, lo spaccavano sui sassi e se lo mangiavano. Una volta mio babbo si è sporcato la canottiera e a quei tempi non è che avevi tanti panni di ricambio, quindi si è lavato nella fontana del piazzale, ma sua mamma l’ha beccato lo stesso e l’ha riempito di schiaffoni, anche se tutti e due erano comunisti. Allora io penso che, forse, i comunisti hanno cominciato a picchiarsi tra loro, per quello non vanno più a Predappio a fare a schiaffoni con i fascisti.

Quando mio nonno era giovane c’era la guerra e di fronte casa mia il circolo dei comunisti non c’era. Di fronte a casa mia non c’era niente, nemmeno dove adesso c’è casa mia a quei tempi c’era niente.
Mio nonno, dico di lavoro, durante la guerra riparava gli aerei ed era così bravo che quando era finita la guerra era andato a costruire i rimorchi per i camion della Bartoletti e una volta aveva costruito un pezzo di ferro per i rimorchi che era piaciuto così tanto al suo superiore che il suo superiore gli aveva fatto i complimenti. Mio nonno il suo superiore lo chiamava Principale e al principale si dava del voi – che poi anche ai genitori si dava del voi, ma quello che voglio dire è che alla fine era diventato operaio specializzato e aveva lavorato tutta la vita alla Bartoletti. Una volta, quando lavoravi, lavoravi sempre nello stesso posto e non ti licenziavano mai e precario era una parola che non esisteva.
Mio nonno, quando era giovane, viveva nelle case popolari e intanto costruiva casa mia con l’aiuto dei suoi fratelli. Un giorno mi ha detto: Questa casa è tutta di cemento, non come quelle di adesso che hanno i mattoni vuoti dentro e io avevo cominciato a girare per la casa a toccare i muri e sentire il freddo dei mattoni pieni e un giorno con mio fratello ho trovato dei mattoni pieni nell’orto e ne ho lanciato uno contro il muro e il mattone non si è rotto. Allora avevo capito che il nonno aveva ragione, che la casa era di mattoni pieni, però la mamma, che era sì comunista, ma democratica, mi aveva dato lo stesso due schiaffoni perché si era rovinato il muro.
Quando sono diventato grande ho capito che le case le facevano con i mattoni pieni perché erano più sicure quando cadevano le bombe, e oggi, che la guerra non c’è, le fanno con i mattoni vuoti.
E se viene la guerra?

[2010]

Astice | Marco Candida

Attualmente il mio mestiere è inventare creature di altri mondi. Negli ultimi cinque anni su questo argomento ho pubblicato tre saggi. Ciò che queste opere che ho scritto principalmente fanno è classificare e descrivere le creature che da circa una decina d’anni, ma forse da quando sono nato, passo il tempo a inventarmi. Ho trentadue anni. A ventisei ho trovato un posto di lavoro nell’ufficio di una azienda privata. A ventotto mi sono sentito dire che in azienda non potevano passarmi il contratto da tempo determinato a indeterminato non solo per la ragione che i costi sarebbero stati troppo elevati, ma anche perché avevano scoperto alcuni miei scritti in una cartella del desktop del computer e francamente non avevano nessuna intenzione di dividere il tempo con un collega che si inventava mostri spaziali provenienti da altri mondi e li descriveva come in un trattato di zoologia. Ricordo di non aver avuto in proposito troppo da obiettare. Per mia fortuna, però, pochi mesi più tardi ho subito trovato un editore che con la pubblicazione ha conferito uno statuto di dignità a quella che prima poteva considerarsi soltanto, e tutto sommato a ragione, una mania bizzarra. La fortuna del resto non si è fermata qui, ma per qualche motivo che non mi e’ completamente chiaro, come penso accada spesso in faccende come queste, i libri che ho scritto hanno trovato anche un mercato. Le prime tirature sono sempre andate esaurite. Per il terzo libro ci sono state addirittura tre ristampe. I numeri non sono impressionanti. Non ci ho pagato praticamente nulla con i miei libri, almeno non finora. Però, a guardare il bicchiere mezzo pieno, sono stato chiamato da un paio di Università. Ho tenuto una lunga conferenza in un altro paio di Licei di provincia – uno era una specie di convegno che durava otto ore dove io ero relatore unico. Sono stato invitato anche in una scuola elementare, dove peraltro ho ricevuto un generoso compenso in denaro. Di solito i lettori che mi fermano alle presentazioni o alle conferenze o che mi scrivono e-mail sono ragazzi giovani con i capelli lunghi, la carne del viso lunare, le labbra carnose e abbondanti, sono magrissimi, e indossano sempre magliette di gruppi metallari, e mi lascia stranito constatare che le mie opere siano gradite per lo più a un pubblico composto da persone che non ho mai frequentato e nemmeno ho mai desiderato o desidererei frequentare – io sono più il tipo che spende le sue diottrie sfogliando incunaboli polverosi e si prende una buona tazza di tisana calda prima di andare a letto, possibilmente non sul tardi. Ad ogni buon conto, non è per snobberia se dico queste cose. Provo estremo piacere a fermarmi a chiacchierare con i giovani che mi tirano per la giacca alle mie apparizioni in pubblico – e di solito hanno età comprese tra i quattordici e i diciassette anni. Le creature che mi sono in gran parte divertito a immaginare (almeno per il primo e buona parte del secondo libro; con l’interessamento del primo editore il senso di divertimento ha lasciato il posto invece a un vago senso di panico che però Amanda si ostina a definire “senso del dovere”; in ogni caso è anche per questa ragione che dopo i primi due libri mi sono trovato qualcun altro disposto a stampare e a distribuire i miei lavori) sono anche diventate parte di tre romanzi di fantascienza e uno di fantasy. Questi romanzi sono usciti negli ultimi tre anni. In particolare il romanzo fantasy è stato pubblicato da una casa editrice importante e ha ricevuto recensioni da giornali prestigiosi. Io stesso sono stato intervistato per un giornale a tiratura nazionale grazie all’attenzione ottenuta da quel romanzo. Quello che di solito faccio quando qualcuno mi intervista o vengo invitato dalle scuole o dai comuni o devo presentare i miei lavori (stipando il baule della mia automobile di copie che poi cerchero’ di rifilare all’uditorio a relazione finita) non è parlare dei miei strani libri (che hanno la forma di saggi scientifici, ma sono in tutto e per tutto finzioni), quanto cercare di chiarire che questi strani libri così strani non sono, e che invece esiste una tradizione alquanto consolidata intorno alla pratica di inventare creature provenienti da altri mondi. Quello che cerco di fare è insomma aggiungere spessore culturale a pagine che, devo dire, poco hanno a che vedere con la cultura e con libri già esistiti, e invece banalmente hanno a che fare di più con un mio bernoccolo per il fantasticare. Mi piace da sempre fantasticare e descrivere dettagliatamente. Dopo il primo libro ho cominciato a scrivere il secondo e circa a metà ho ricevuto una proposta da un editore. L’editore mi ha fatto un contratto per due libri della stessa natura. Di conseguenza, come ho già accennato sopra, quello che avevo sempre considerato soltanto una piccola evasione dalla realtà quotidiana – e qualcosa anzi che tendevo a tenere perlopiù entro i confini del mio privato – tutto d’un tratto è diventato un dovere. Era diventato necessario inventare creature di altri mondi – possibilmente terrificanti – ed era diventato necessario che questa capacità che mi era stata riconosciuta attraverso un contratto editoriale diventasse continuativa. È questa la ragione per la quale da qualche anno sono ritornato a frequentare assiduamente i luoghi da dove ritengo le mie creature provengano davvero ossia l’Acquario di Porto Antico di Genova e il Mercato Orientale di Genova in Via XX Settembre. Mi piace frequentare specialmente il secondo luogo che ho citato e la ragione è piuttosto semplice: per visitare l’Acquario non sempre trovo l’amico che, prendendosi ogni volta i suoi rischi che io ripago solo parzialmente mettendolo nei ringraziamenti dei miei volumi, mi permette di passare senza pagare il biglietto d’ingresso, che è veramente molto costoso. Anche tre giorni fa, ed ecco che comincio con la storia che qui volevo raccontare fin da principio, mi trovavo per l’appunto proprio al Mercato Orientale di Genova. Passeggiavo tra i banchi del mercato assieme ad Amanda. Era un sabato. Saranno state le tre o le quattro del pomeriggio. Ricordo che faceva molto caldo. Amanda era affascinata dal fatto che le mille trecento sessantanove creature aliene che avevo classificato e descritto nei miei libri derivassero, in realtà, dall’incrocio tra crostacei, cetacei, insetti, dinosauri, e altre specie e famiglie di animali dai nomi assai più complicati. Naturalmente appena mi accorgevo che più che lodarmi Amanda stava soltanto cercando di ficcarmi sotto i piedi un qualche piedistallo, io mi affrettavo a fare subito un balzello più in là al fine di evitarlo. Amanda è molto abile in questo genere di strategie oblique, sebbene la sua abilità maggiore, sono cotretto a osservare, sia non tanto farmi salire sul piedistallo quanto farmici precipitare giù, di solito tutto d’improvviso. Pertanto per evitare le sue manipolazioni sottili le ho cominciato a dire che ad esempio molte creature aliene di Lovecraft si ispirano apertamente alle creature provenienti dagli abissi del mare. Cosa dire, solo per citare il caso più evidente, dei Polipi Volanti? Chtulu è un groviglio di tentacoli piovreschi e ali pipistrellesche. I Cuccioli Oscuri di Shub-Niggurath è un insieme di orribili mostri tentacolari. D’altronde, la cosa e’ ormai nota. Gli alieni del film Distretto 9 – uscito nel 2009 – sono chiamati per tutta la durata della pellicola Gamberoni – e ci assomigliano effettivamente, ai gamberoni. Ventimila leghe sotto i mari riposa un mostro marino che altri non è che un calamaro gigante. Lo squalo di Spielberg. I piranha di quel fim con Steve Austin l’uomo da sei milioni di dollari. Un poco, devo ammetterlo, andavo a casaccio. Se da un lato infatti volevo dimostrare di non avere un’immaginazione così diversa dagl’altri – il che so bene implica sempre anche una qualche speciosa forma di deviazione, cosa che mi avrebbe fatto salire sul piedistallo di Amanda –, dall’altro non volevo esagerare con la mia erudizione in materia di creature disgustose, cosa che mi avrebbe parimenti portato diritto sul piedistallo di Amanda. Invece ho cercato di spostare la conversazione su un terreno neutrale dove entrambi potevamo confrontarci. Si dà il caso infatti che Amanda sia una biologa marina. Si è laureata tre anni fa alla Facoltà di Genova con una tesi sugli invertebrati focalizzandosi specialmente, per qualche ragione profonda che ora però non rammento, sulle scifomeduse e gli ctenofori. Il perché Amanda abbia esercitato un fascino su di un tipo come me a questo punto mi sembra chiaro abbastanza; sul perché io invece abbia esercitato un fascino su una biologa marina con una tesi di laurea sugli invertebrati è cosa sulla quale non voglio fermarmi a interrogare troppo. Battute di spirito a parte, comunque, ecco che cosa ho fatto al Mercato Orientale di Genova qualche giorno fa per evitare i trabocchetti candidi di Amanda. Ho allungato una mano verso un bancone e ho cominciato a dire: «Considera questi polpi. Nota le ventose. Osserva come sono viscidi. So che sai descriverli. Però non fermarti alle loro caratteristiche oggettive. Prova a vederci altro. Questi polpi, Amanda, non ti sembrano cervelli spappolati?» Amanda allora ha replicato: «Sapevi che l’Octopus Vulgaris è provvisto di un becco corneo che gli serve per rompere guschi di conchiglie?» «No, Amanda. Non lo sapevo. Tu sei l’esperta. Non riesci proprio a vederci altro, però? Io ad esempio ci vedo… mm… labirinti striscianti.» «Labirinti striscianti, dici.» «Sì, labirinti striscianti.» Poi ho steso la mano verso un altro bancone: «Considera il granchio, allora. Non ti fa venire i brividi, il granchio?» «Credo proprio che questi che stai indicando appartengano alla specie del Cancer Pagurus. Se ti fa stare male questo, allora dovresti vedere il Macrocheira Kaempferi. Sembra una specie di ragno uscito da un laboratorio dove è stato sottoposto a raggi gamma che gli hanno fatto subire una mutazione genetica.» «Siiiii!» ho ho esultato io. «Vedi che sai vedere altro oltre al visibile?» «Certo che so vedere altro oltre al visibile. Io però voglio fare qualcosa d’importante nella mia vita. Non usare la mia immaginazione per cose inutili. Ti dirò che quando vedo un film dell’orrore con i mostri che hai citato provo quasi piacere. Mi sembra di vedere materializzarsi gli organismi che ho studiato per anni e anni all’università.» Dopo un momento di pausa ho detto: «Sono terrorizzato all’idea che un esperto della seconda guerra mondiale o del nazismo possa pensarla al tuo stesso modo.» E poi: «Guarda quello, allora. Considera l’aragosta. Cosa vedi?» «Cose molto brutte da quando ho letto i tuoi libri. Ormai ci vedo solo lo Scorpiogosta.» «In effetti viene dall’incrocio tra una aragosta e uno scorpione» dico io sentendomi soddisfare dal fatto che qualcuno ricordi le cose che ho scritto. «Non è poi così difficile sospettarlo, Professore.» Ecco che Amanda come un ragno che produce fili di marmo mi aveva tessuto il suo piedistallo sotto i piedi senza che nemmeno me ne fossi minimamente accorto. Mi ci aveva fatto salire e adesso con un calcetto subito discendere. «Del resto» ho allora cercato di difendermi, «se fossi riuscito a mettere in atto un processo immaginativo meno pigro e a farmi venire l’ispirazione non dalle creature marine o preistoriche, e qualche volta, sì, qualche volta, devo ammetterlo, anche dagli organi riproduttivi femminili, ma da qualcos’altro, probabilmente i miei libri sarebbero stati accettati da case editrici piu’ importanti…» «C’è tempo. Ce la farai anche tu. Mi chiedo solo, ecco, se è davvero così che stanno le cose.» «Cosa vuoi dire? Non capisco.» «Mi chiedo se questa storia che racconti ogni volta sul fatto che i tuoi archetipi sarebbero rinchiusi tutti quanti nel Mercato Orientale di Genova o nell’Acquario non sia in realtà soltanto una facciata.» Ho guardato Amanda. I suoi capelli biondissimi. Gli occhi da svedese. «Voglio dire che leggendo le descrizioni che offri ai lettori, ecco, si ha proprio l’impressione che ciò che descrivi tu lo abbia visto, con i tuoi occhi.» A questo punto sono restato perplesso, per qualche momento. Mi sono domandato che cosa stesse cercando di fare Amanda. Amanda sapeva benissimo che mi ero inventato tutto. Poi ho concluso dopo un poco che Amanda volesse semplicemente divertirsi a giocare con me. Così l’ho assecondata: «Amanda, la maggior parte delle creature nei miei libri io infatti le ho viste. Fino ad ora non l’ho mai confessato a nessuno. Però le ho viste. Non me le sono solo immaginate. Ecco in natura succede che a volte… » «Che cosa?» «A volte nascano degli strani abominii. Solo che non tutti riescono a rendersene conto. I miei mostri derivano precisamente dall’osservazione di questi scherzi di natura.» Nel frattempo che parlavo Amanda e io ci siamo fermati davanti a un acquario per astici. Sopra il coperchio in vetro c’erano due astici immobili e senza vita. Sotto era rimasto un astice che si muoveva come al rallentatore. Gli astici sul coperchio puntavano le loro chele minacciose verso di noi. «In effetti, ti dirò, è proprio vero che ho nel cassetto un libro che è in realtà una lunga e articolata relazione su una serie di creature abominevoli che ho incontrato durante le mie ricognizioni in vari luoghi in cerca di idee per i miei mostri. Nessun editore finora ha voluto pubblicarlo dato il contenuto ad alta infiammabilità del testo. Un giorno però scoperchierò il vaso. Farò vedere a tutti che esistono mostruosità in natura mille volte peggiori di quelle che ci immaginiamo – o che si trovano sui motori di ricerca di Internet. Branzini con gigantesche e raccapriccianti ali di mosche. Cavalli con rivoltanti musi a forma di pesce spada. Stambecchi con zampe di gallina. Ho fotografie. Ho due dozzine di filmati. Probabilmente si tratta, come ho detto, solo di scherzi della natura. Forse sono il risultato delle manipolazioni ambientali dell’uomo… O forse sono animali che sono saliti sulla superficie dalle profondità abissali del mare o della terra… Come probabilmente sai molto meglio di me a tutt’oggi conosciamo solo il sessantacinque per cento della fauna marina… Certo che quando con questi due occhi ho visto…» A questo punto però sono stato costretto ad interrompermi. Qualcosa di davvero incredibile si è infatti verificato davanti a questi miei occhi e credo mi accompagnerà per sempre nei miei incubi peggiori. Uno degli astici posato sul coperchio dell’acquario, quello a destra, ha spiccato un balzo improvviso ed è finito addosso ad Amanda. Deve aver spiccato un balzo di almeno un metro e mezzo. Mentre saltava velocissimo sul collo di Amanda mi sembra di poter dire di aver anche sentito il rumore di un ronzio, come di mosca o di vespa, anche se probabilmente devo solo essermelo immaginato. L’astice era ancora vivo. Amanda è crollata a terra con l’astice sul collo. Ero paralizzato dall’orrore. Amanda gridava. L’astice si è mosso sopra di lei. Lei ha cercato di buttarselo lontano, ma quello le ha chiuso le chele sul collo. Il sangue ha cominciato a zampillare. A quel punto in tre o quattro si sono lanciati su Amanda e le hanno tolto l’astice d’addosso. Amanda è rimasta a terra gridando e in preda alle convulsioni. Anche se aveva smesso di zampillare, il sangue ha seguitato a fluire fuori dalle aperture che le chele avevano prodotto. Qualcuno l’ha tamponata con degli asciugamani. Qualcun altro ha chiamato il pronto soccorso. Poi si è fatto largo un medico. Per fortuna la chela dell’astice non ha reciso nessuna vena importante, altrimenti Amanda sarebbe probabilmente morta in modo assurdo, quasi soprannaturale, in quel mercato di Genova, con me impotente e sopraffatto dal terrore a guardarla. Ancora adesso sono torturato dai brividi a ripensare a quello che è successo. Da un paio di notti anzi continuo a piangere. Dormo con la luce accesa. Penso a cose irrazionali. Forse Amanda è stata punita per quello che scrivo. Non lo so piu’ cosa devo pensare. Comunque sto molto male. Non riesco nemmeno a prendermela con il proprietario del banco di pesce, che peraltro ieri abbiamo querelato. Non credo nemmeno che sia stata una buona idea buttar giù questo resoconto. Non mi sento per niente meglio, adesso. Quel ronzio. Non riesco proprio a togliermelo dalla testa.

[2010]

Luisanna Gerace | Francesca non esiste

Stamattina mentre andavo a lezione di filologia romanza ho messo il piede in una pozzanghera. Posso sforzarmi di pensare che Francesca non esista, ma non che non esistano le pozzanghere. Quelle esistono e ti lasciano i piedi umidi per tutta la giornata. Credo che Francesca abbia fatto pallavolo da bambina, ha il culo di una pallavolista dilettante, ne sono sicura, è un’illuminazione da pausa sigaretta. Quasi mai prendo abbagli durante la pausa sigaretta.

Francesca tutte le sere, tornando da lezione, si ferma nel baretto di Maurizio, un’accolita di artistoidi che sognano un ultimo tango e le soffitte polverose alla Rimbaud. Io ci passo di fronte, mi affaccio appena per vedere se è già arrivata e poi di filato riprendo la mia strada, rossa e con il cuore che fa tum tum perché tutti si sono girati. Scappo come una ladra, goffa e impaurita. Non ho il maglioncino giusto per entrarci, non porto treccine vezzose sotto un basco, né calzini buffoneggianti. Mi vergogno con i miei sottaceti nel cassetto della scrivania.

Francesca ride poi infila le lunghe dita nell’olio torbido e tira fuori le melanzane gocciolanti. Le ingoia veloce e le sue labbra scintillano di unto.

Io di Firenze conosco solo il campus e le vie centrali.

Firenze è tutta gialla e marrone e nell’umido di Pontevecchio sbrilluccicano coralli dalle vetrine. Sono arrivata qui con le valigie piene di sciarpe e scarponcini, come Totò a Milano, e mi trascino dietro una sfilza di otto sui temi di italiano che la professoressa Lorenzi segnava in blu con due pallini ravvicinati. Mi diceva, col suo rossetto rosso pompeiano, che ero troppo aggettivata. Me la prendevo, me la prendevo tanto. Poi si schiariva la voce e mentre scorreva la penna sul registro modulava un Veniant da far tremare i polsi.

Adesso mi sento troppo pulita e troppo classica per questo posto. Troppo verde in viso per Francesca che ha le guance color Biancaneve, sangue sulla luna. Mi porto dietro questo desiderio come mani macchiate di marmellata, appiccicosa e invisibile, che tento di nascondere dietro la schiena.

Quando sono partita mia nonna mi ha dato un rosario che profuma di rosa e una coperta fatta a mano per coprirmi le gambe sul divano. Qui non abbiamo un divano, in questa stanzetta da campus ci sono due letti, due scrivanie e un cucinino striminzito; ci sono i miei libri su una mensola e le tele senza telaio di Francesca.

«Mi fai dipingere le tue mani?» mi chiede insistentemente.

Ma le mie mani sono brutte, sembrano porcellini impauriti, sono cicciotte e corte e poi sono sporche di marmellata… le dico di no, chiudo i pugni e scappo in un libro di Joyce.

Quando leggo mi tormenta il rumore del mare, penso che chi vive a due passi da una riva riesca meglio a credere ai miracoli, è il fatto di non vedere mai i confini. Penso che conosca la strana sensazione dell’attesa, l’arte di tessere la tela aspettando il messaggio nella bottiglia. Il mio messaggio nella bottiglia si chiama Francesca. Il mio temporale si chiama Francesca e come ogni temporale fa paura con quel bubbolìo che picchia i vetri e nasconde il ritmo del cuore.

Da un po’ di tempo Francesca gira con un ragazzo biondo che porta sempre il cappuccio delle sue felpe in testa. Lui entra in camera e non saluta, si butta sonnolente sul letto e sfoglia giornali che parlano di concerti. Francesca, invece, lancia calzini in aria e cerca scarpe colorate sotto il letto. Ha sempre fretta di andare, di tornare, non risponde al telefono e segna sul calendario il suo ciclo irregolare. Sembra non sapere cos’è la noia. Io invece la noia la conosco. E non è che sia poi così male. Nella noia c’è la pausa, il rifiatare, c’è un non so che di possibilità, una sorta di potenzialità, l’inespresso: a volte questa sospensione mi serve.

Di Francesca quello che adoro di più sono i suoi polsi. Sono leggeri e sottili e quando muovono il pennello sembrano ballerine di antiche danze popolari, come pizziche o saltarelli. Anche i polsi sono color Biancaneve.

Una sera rientro in camera, mi chiudo dietro la porta e la trovo a piangere su un romanzo. Lei cerca di nascondere il libro, ma io intravedo il titolo, Pomodori Verdi Fritti al caffè di Whistle Stop. Si volta tirando su col naso e poi dice: «Che cazzata di libro!»

Rimango ferma, cerco di capire qualcosa, mi appoggio e le calze si attaccano al muro elettrizzate. Lascio la borsa sulla sedia, ma non dico niente.

«Tu lo sai cos’è l’amore?» dice.

Oddio, cosa posso risponderle? Non lo so, non lo so cos’è l’amore. Ma di certo assomiglia a me che faccio finta di dormire quando lei rientra tardi col sapore di vino dolce in bocca o alla sua gamba piegata sotto il sedere sulla sedia blu di camera nostra. Rispondo di no e lei fa un sospiro, poi riapre il libro e continua: «Penso che sia Dorothy sui mattoni gialli sulla via per Smeraldo… tanto lo sai, no, che il Mago di Oz non è quello che pensavi.»

Le si muovono gli occhi velocemente, quel color nocciola lucido e molle è instancabile. Lancia il libro, si alza, s’infila in bagno e urla tra lo scroscio dell’acqua corrente: «Stasera esco con Mat.» Raramente m’informa sulle sue serate, specie se queste prevedono una coperta sotto cui nascondersi.

Ogni tanto spero che mi guardi come guarda Mat e mi contagi di bellezza e dinamismo, del rossetto che non le si sbava mai. Ogni tanto spero di essere io quella coperta.

Guardo Francesca da lontano, accanto alla facoltà. Tra pochi minuti ho una lezione, ma mi avvicino lo stesso all’edicola.

I giornali dicono che ha il cervello bollito dalla cocaina, sarà, ma nessuno parla come lei. Quel modo morbido di dire parole vive, piene di ritmo. Francesca ha ancora i capelli lucidi e sembrano soffici come quella sera sotto il quadro del Bronzino. E le sue parole ripartono, non hanno paura. Le mie parole sono morte, ma io le amo come se fosse sempre il primo giorno. Cerco di spiegare come si trasformano e come si trasformeranno ancora. Spero di dare, di far anche solo scorgere appena a ragazzi di 20 anni – tutti quegli occhi aggrovigliati e frettolosi – quanta vita esista in una lingua morta; dal primo suono di un mantra antico, la sillaba di Dio, come da un aum stentato, nascano gli uomini e le idee, come diventino storia. Ci provo, se necessario sbatto i pugni sul tavolo, non mi interessa che capiscano, mi interessa che sentano. Dalla punta della lingua fino alle vene, perchè alfabeti sepolti sanno ancora far scendere desideri dalle stelle. Nulla è per caso: « – venir giù – sidĕris – stella», ripeto ogni volta che sento qualcuno che si allontana e si perde avvilito.

Non sono segnali, reazioni, formicolii da sputacchiare fuori in fretta, le parole sono intrecci irrevocabili, tamburi da percuotere, evocano, suonano, tracciano strade.

Alle volte però sono stanca e arriva come una frenesia strana, una sorta di shock anafilattico, mi prende la fretta di passare oltre, andare, andare. Mi prende la voglia del sole e di cose fosforescenti che non hanno passati da rintracciare, di maionese, di riempirmi la bocca di gomme da masticare. Mi viene da sbattergli contro le radici, i suffissi, gli affissi, le crasi e imbrattarmi le mani di marmellata…

Altre volte sono vicina, sospetto tra quegli occhi agitati un lampo che mi somiglia, un fuggitivo raccogliere. Qualcuno ogni tanto leva l’ancora e infila il mare, lo aspetta un’infinita lotta. La stessa sete, lo stupore, il panico di sapere. E lì ho vinto, ci sarà un altro aum che spiegherà il mondo. Mi fermo, mi basta così. Appoggio di nuovo gli occhi su una labiale, sui suoni lunghi, su una sillaba che tintinna, mi viene una ridarella comica, non sto nella pelle. Ce l’ho fatta, Firenze finalmente è mia!

A Firenze quando piove succede che le foglie si impastano. E il fiume s’ingrossa. E il tempo si mischia perfettamente agli imperativi e alle cioccolate calde. Tengo sempre la scrivania davanti alla finestra, anche lì al campus lo facevo. Ma adesso ho una ruga e una stanza tutta per me. Adesso apro la finestra quando piove, adesso tra i corpora e Calvino e con le bacchettine di incenso che spengo di corsa al primo odore di pioggia prima che piova, so raddrizzarmi le spalle che ho creduto piegate senza rimedio.

Adesso è un’acquerugiola stanca, un salmodiare atono che non spande paure, adesso non sono io quel silenzio e non è lei il mio schiamazzo, il frusciare di sottofondo. Non è le porte che sbattono, tonfi di dizionari che si chiudono esausti, non è Degas appeso al muro. Adesso, Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, nessun rumore le assomiglia ormai. Adesso che porto anelli alle dita e i capelli biondi, adesso so spiegare i batticuori, le nuvole, il vento dell’est. E distinguo un pioppo da un faggio, una peonia da un ranuncolo. Adesso che il mio mare è giallo di spighe di grano mature, ho le mani pulite di un amore sereno, che piega la testa di sera per una carezza e che con ossa pesanti e robuste stufa verdure e pazienza, riscalda di polvere e di argilla.

Adesso vivo. Di fonemi e grammatiche. Dei polsi di Francesca e del sorriso largo, dell’odore di sapone e latte, di un fiato accennato, sfiorato appena e una penna tra i suoi capelli, di ricordi, ricordo, circondata di memoria, solo la tenerezza di non sentirmi intera e non saperlo. Solo di una perduta carezza.

Adesso vivo. In campagna con una donna androgina e seria che si occupa dei nostri animali e scrive poesie sugli uccelli. Io la prendo in giro, le dico che questa è invidia del pene, lei se la prende un po’ e sbuffa sempre le stesse cose: «mi incanta lo sguardo rapace, volitivo e intuitivo di questi animali.» Ogni volta mi dice così e ogni volta io penso a Francesca, lo sguardo rapace, volitivo e intuitivo, anche se lei non esiste.

Alessandro Gori | Nel nero

Le tenebre e un telescopio. Guardare senza essere guardato. Luci della città, nella notte, che passo in rassegna da lontano.
Sono led perfetti fra le tenebre incontenibili. Errori di calcolo, lacerazioni, entropia, incidenti di percorso del buio. E al sicuro nel buio, le indico con un dito, una ad una. Posso prendermi il tempo che voglio. Le posso contare. Miliardi di luci. Per ciascuna un momento, una vita, sangue che si secca lentamente nelle vene. Finestre, lampioni, insegne, poi automobili, sigarette, autogrill, sirene. Storie. E io lontano chilometri, perso nel nero di un bosco in collina. Ecco quello che fa paura. E che fa piangere noi bambini.
Miliardi di luci. Mi scelgo la finestra accesa di un casermone in periferia. La seconda da sinistra, sesto piano. La sagoma di una donna, in controluce, appoggiata al davanzale. Mi ci gioco tutto. Vorrei essere lì e irrompere nella tua vita. Suonare il tuo campanello e arrendermi a te, consegnarmi, chiunque tu sia. Chiederti di salvarmi, di portarmi via con te. Di lasciare la tua casa, la tua famiglia, se ne hai una. E scappare insieme dalla notte. Sei una sconosciuta, forse puoi farlo sul serio. Magari hai una macchina abbastanza veloce. E poi forse in due si riesce a sconfiggere la notte. In due forse non si muore. Ci abbracceremo. Mangeremo cornetti caldi, ci racconteremo storie di fantasmi e leggende metropolitane. E mentre rapirai i miei lombi fra le tue cosce, cercherò cerniere di carne sotto le tue scapole. Ci raschieremo di baci le ossa, con le unghie svelleremo ghiandole. Frugherai il buio nel mio stomaco, righerai il mio cervello col tuo rossetto, dalle mie palpebre drenerai catrame. Spegneremo luci, orologi e dolore, fughe e il rumore del mondo. Potrò aggrapparmi alla tua vita, smettere di essere, di esserci. Affogherò le lacrime chiuso a chiave nel tuo abbraccio di strega. E me lo devi promettere che non moriremo. Tutto è troppo imperfetto per finire.
Ma il primo a morire è proprio questo pensiero. Ogni volta. Inutile e autoconclusivo. Si brucia da sé, perché non ha le ali per andare lontano. Non ce ne danno di ali. Sono qui, con uno stupido telescopio di plastica e la tosse del mio cancro, nel silenzio. Quel silenzio che non ti spaventava da bambino, ora ti entra dentro come un coltello affilato. E anche se a volte la senti lontana, sai che lei tornerà sempre, perché già ce l’hai addosso. Ti sentirai solo, chiuderai gli occhi per cercarla. E la notte tornerà.
Stringimi forte, strega.

[2010]

Elena Marinelli | Sunday morning

Passaggi per il bosco, Aritzo (NU) | foto di Girolamo Lanzafame

1.

Teré, dove sei?
A casa.
Vieni? E’ successo un guaio.

Quando muoiono le persone, io non piango mai.
Piango in bagno, da sola. O nel letto, sul cuscino.
Ma quel giorno, quello del funerale, io non piango mai.
Per questo mi ci vogliono tutti al funerale; e mi ci vogliono tutti alle commemorazioni e anche in obitorio, a riconoscere cadaveri stesi.
Perché quando tu piangi, io non lo faccio. E se ti viene da svenire, io resisto.
Non si può stare male in due, quando si sta male per i morti.
Qualcuno deve tenere le mani e mi chiamano apposta.

Angela mi chiama che è già buio. Il buio di settembre arriva tardi, non è ancora autunno, non è più estate, ma in certe sere arriva quando io sono già a letto.
Angela mi dice solo che è successo un guaio. A me basta.

Guaio come lo diciamo noi, a Casacalenda. Guaio che vuol dire una cosa non proprio normale, un po’ brutta, ma non esagerata. Un guaio mette in allarme. Nulla più.
Non mi aspetto nulla di grave. Aveva la voce fioca e trattenuta, ma non mi preoccupo. Se fosse successo qualcosa di davvero grave, un guaio serio, non avrebbe chiamato me.
Prendo il treno ed è notte. Il primo che passa e mi riporta su.
Sul treno dormo, con un occhio al telefono e uno al finestrino, per vedere il giorno arrivare.
Sono ad Ancona, mi sveglio lenta e sul mare si vede già un po’ di celeste. Un tizio col cappellino con la visiera che corre in senso contrario al treno e la nostra andatura lenta, in ritardo.
Venti minuti di ritardo.

Teré, dove sei?
Sul treno.
Vengo a prenderti?
No, no. Prendo il 36.
Non dobbiamo andare a casa.

Piange. Finalmente, piange.

Che succede? Una cosa grave?
Quando arrivi ti dico.
Ci vediamo sotto la pensilina del 36.

Dal mio zaino ad Ancona prendo il libro. Devono passare ancora due ore. Leggo il giornale di ieri, ma ieri era domenica e sul giornale parlano di libri. Allora prendo un libro a caso dallo zaino, ne ho due e basta. Uno sta per finire, l’altro deve iniziare. Li prendo entrambi per la verità, li tengo sui palmi per un po’, li peso, li misuro, li guardo. Li conosco benissimo e li metto lì fuori, sulla mensolina vicino al finestrino.
Decido per quello da iniziare e leggo: Molte ragazze davvero belle hanno dei piedi davvero brutti, e Mindy Metalman non fa eccezione, pensa Lenore, all’improvviso. Sono piatti e lunghi, con le dita strombate e i mignoli afflitti da bottoni di una callosità giallognola che riappare a mo’ di battiscopa lungo i calcagni, e sul dosso dei piedi sbucano peluzzi neri arricciati, e lo smalto rosso è screpolato e si scrosta a boccoli per quant’è vecchio, mostrando qua e là striature bianchicce. Lenore se ne accorge solo perché Mindy si è chinata in avanti sulla sedia accanto al minifrigo per staccare dalle unghie dei piedi appunto un paio di fiocchi di smalto; i lembi dell’accappatoio si dischiudono su un generoso scorcio di scollatura, decisamente più sostanziosa di quella di Lenore, e lo spesso asciugamano bianco che cinge la chioma zuppa e shampizzata di Mindy si è allentato e una ciocca di capelli scuri è sgusciata tra le pieghe e scende leggiadra incorniciandole la guancia fin sul mento.

Ed è vero: Angela, infatti, ha dei piedi bruttissimi.
Nel mio zaino c’è anche il cellulare che squilla piano. Leggo dei suoi piedi e poi mi chiama.

Teré, dove sei?
Ad Ancona. Sto ripartendo.
Che città del cazzo, Ancona. Quanto ci sono stata male ad Ancona?
Mi dici che c’è?
Nicola.
Che ha fatto?
Non lo riesco ancora a dire.

Non riesce. Però piange.

Vado un po’ a letto.
Chiamami quando sei a Imola.

Quando viaggio sul Lecce-Milano mi sveglio esattamente nei punti giusti: a Pescara per vedere se sono in ritardo, ad Ancona per controllare se sono ancora in ritardo. A Imola per non perdere Bologna. Non sono mai arrivata a Milano per colpa del sonno, ma stavolta mi tiro su di colpo e vedo già San Luca.
Scendo di corsa, fortuna il mio zaino non pesa niente. I libri li ho in braccio e sotto la pensilina del 36 Angela m’aspetta già.

Scusa, mi sono addormentata.

Non gliene importa: mi salta al collo. Stringe e piange. Piange e non mi ricordo quanto ha pianto. Mi ricordo che è passata della gente, erano quasi le otto e adesso sarà passata mezz’ora. L’abbracciavo forte ma dopo un po’ gli abbracci certe volte non li senti più. Ma piange.

Mi dice che dobbiamo andare all’obitorio.
E io non ci posso credere.
Mi dice che Nicola proprio non ce l’ha fatta.

Sull’autobus mi tiene stretta. Fa finta di dormire.
Arrivati, sussurro; le do un bacio sulla testa.

Ci fermiamo davanti al portone. Il mio zaino comincia a pesare. E’ vuoto, a casa ho lasciato tutto. Non mi porto dietro nulla quando torno dai miei per due giorni, figurarsi per uno.
Figurarsi per seppellire i morti.
Figurarsi per seppellire mio nonno.
Non serve niente. Basta una mano, bastano gli occhi lucidi e tesi. Bastano i nervi che tremano sottopelle senza farsi vedere. Basta questo.
Arrivano lo zucchero e il caffè dalle donne vestite di nero. Nonna non c’è stata, ha fatto tutta la strada prima, perciò con tutto lo zucchero e il caffè hanno riempito le dispense per settimane, per mesi quasi a mia mamma.
E mia mamma ha smesso di prendere il caffè.

Sul portone dell’obitorio erano già le nove e mezza.
Entriamo mano nella mano. Stiamo tutto il giorno mano nella mano. 

E anche un anno dopo siamo mano nella mano. 

E diosanto, la mia mano è così piccola.

Cristo.

Non credo abbia mai più detto cristo in vita sua. Mai piangendo, mai in assoluto. No. Non è da lei dire cristo. Lo pensiamo entrambe e lei lo dice. Mi tiene la mano così forte che quel cristo diventa anche il mio.

Ci spiegano esattamente quello che succede a uno che s’uccide.
Quello che è successo a Nicola, nel particolare.
Succede che lo puoi fare di colpo o lentamente. Succede esattamente quello che t’aspetti. Niente tunnel, niente bianco, niente ripensamenti.
Formicolii. Il sangue che impazzisce, va al contrario, finalmente rompe le righe, se ne va. A un certo punto, lui, semplicemente se ne va. Oppure scappa. A seconda se fai in fretta o vai piano.
Formiche che camminano, ma pare che corrano. Formiche che si dileguano e sembrano felici.
Non so che cosa ci spiegano.
Non so com’è.
Angela piange e a me proprio non interessa null’altro.

Cristo.

Lo scarrellamento dura poco. Tirano su il lenzuolo e poi giù. Un minuto, al massimo. Non serve altro. Si fa in fretta. Lo scarrellamento, però, prende la gola.
Mentre il medico spiega, io pensavo solo al quel carrello, all’acciaio che sarebbe spuntato, come nei telefilm americani, in cui si sente quel rumore preciso, dopo il quale io penso sempre di coprirmi gli occhi.
Lo scarrellamento farebbe mettere le mani sugli occhi, perché il medico è risoluto, prende il manico d’acciaio e tira, come se tirasse il collo a una gallina. Come se non fossi lì per guardare.

I morti dell’obitorio non sono morti veri. Sono congelati, sterilizzati, puliti. Hanno l’odore dell’acqua. Nicola non ha l’odore di mio nonno. E soprattutto, non parla.
Mio nonno, a tendere l’orecchio lo sentivi ancora raccontare della volta che in Canada un francese lo aveva preso in simpatia e lo faceva lavorare parecchio perché così guadagnava di più.
Sentivi l’affanno e le pause lunghe. Nicola invece è d’acciaio, come nei telefilm americani. Come quando non succede per davvero. Come quando mi copro gli occhi, tanto so che non è vero.

La stanza dell’obitorio è pulita. I suicidi fanno uno sconquasso. Ma poi, una volta che è finito il formicolìo, è tutto disinfettato e analizzato. Una cartella che dice overdose, o colpo in testa o impatto al suolo.

Sì.
Io non ho detto niente. Due secondi. Lenzuolo giù, carrello dentro.

Non si poteva aspettare sua mamma. M’hanno chiamato, io pensavo stessi a Milano, ti ho chiamato. Scusa.
Di che?

Sua mamma. Chissà com’è sua mamma. 
Che male ha in pancia, sua mamma. Sentirà un formicolìo in pancia, a quest’ora. E il sangue che non si muove e Nicola a testa in giù.

Ha lasciato un biglietto per me.
Davvero?
Sì. Leggi.


2.

Se dovessi morire domani.
Iniziò così.

Se dovessi morire domani adesso mi metterei a scrivere. Nelle condizioni in cui sono non ho voglia di parlare, ma solo dare ad un momento imprecisato di domani la possibilità di parlare per me.

Continuò così.

Sono già steso e mi sento intero e forte, sotto di me il materasso è saldo, mi tiene senza ondeggiamenti; non cigola, mi muovo piano e non fa rumore, accarezzo le lenzuola e non sento il cotone.
Non più.
Qualche minuto fa sentivo l’odore rinnovato del lavaggio meccanico e adesso mi sono già assuefatto.
C’è un limite che devo superare: lo conosco, l’ho visto all’orizzonte altre volte.

Stamattina mi divertivo a osservare le persone che incrociavo per strada. Ho fatto lo stesso percorso di ogni giovedì e ho visto facce di cui mi ricorderò per sempre.
Le ho guardate tutte dalla testa ai piedi, suscitando fastidio a volte; le ho fissate nei difetti: nel naso grande, nel neo vistoso, nel brufolo sul mento, nell’acne adolescenziale, nel piede zoppo, nel sudore che colava lungo il viso grasso dell’uomo in giacca e cravatta.
Li ho guardati con insistenza; a volte li ho seguiti anche, una volta passati accanto, non li avrei mai potuti rivedere.
Mi chiedevo se qualcuno fra loro avesse mai pensato all’ultimo giorno. Un ultimo giorno normale, s’intende. Uno come questo di oggi, col sole e l’afa di giugno, con la pelle umida e il lavoro da fare.
Pensavo all’apocalisse che non avrei mai visto e mi domandavo se mai qualcuno di loro l’avrebbe vista, un giorno.
Mi è venuto in mente per un attimo il desiderio di non tornare a casa. Di salvarmi, di scegliere uno di loro cui raccontare la mia storia e chiedergli di salvarmi. Oppure, dopo averla raccontata, chiedergli di tenerla per sé.

Se dovessi morire domani, vorrei scrivere poche cose.
Proseguì così.

La maggior parte non le capirebbe nessuno: risulterebbero insulse e inappropriate, probabilmente banali. Mi sento banale. Avevo immaginato questa situazione addosso ad altri diverse volte, tutte simili e tutte uguali a loro stesse: un corpo steso, un biglietto ordinato, le lenzuola pulite, il corpo pesante come dopo una corsa e un pensiero a una sola donna. Una sola. L’unica che stava ad ascoltare. E che non mi avrebbe creduto.

Se dovessi morire domani, le direi che le colpe ovviamente sono solo le mie. Sarei banale. E quieto.
Infine, disse così.

Le colpe non vanno ripartite, non esistono.
In questo caso le colpe non sanguinano né lasciano lo sporco. Sono contrite e si spengono in un attimo e non appartengono a nessuno, nemmeno a me.
Tu che m’ascoltavi sempre e mi tenevi stretto mentre piangevo potresti dire domani che ero uno stronzo e una grande cretino a frequentare certa gente, a non dire niente, a mentire e a fare il bravo ragazzo.

Con te non ci riuscivo e stavi ad ascoltare lo stesso, perciò ti scrivo.

Non mi sento in colpa perché penso di non avere un’alternativa. Il pensiero di non avere un’alternativa, portato all’eccesso, mi ha guidato a stendermi a letto con un ago sottile e appuntito in una mano.
Se uno dei volti di stamani mi avesse offerto un’alternativa, avrei potuto pensare di seguirla, avrei scelto forse di non tornare a casa, a un certo punto.
Invece, sull’uscio già sentivo le voci dei ragazzi e già la loro caciara mi ricordava esattamente lo strenuo della voglia di essere lì, il limite finito e mai accantonato che mi seguiva da tempo. L’ho visto, sulla porta di camera mia. Era arrivato. E mi è bastato stendermi: poi è come se un’altra persona avesse fatto tutto, si fosse occupato di me come una governante premurosa. A me tocca solo agire di pensieri, fissarli perché sono gli ultimi e perciò vanno scelti con cura.

Non posso rientrare nei ranghi perché adesso sento un certo sollievo. Lo sento piano ma in un crescendo che mi sta provocando e io accetto la sua sfida. Non urlo e non torno indietro.
Le voci di là non mi trattengono. Parlano di loro stessi e non di me. Parlano di un disagio che è il mio senza di me. Mangiano e bevono.
Sto pensando a me. Alle cose che ho fatto. Tutte, me le ricordo tutte. E sono tante, riescono a riempire tutti gli istanti del sonno. Il mio pensiero rimbomba, nella mia testa rimbomba sempre più lento e si posa pacato in fondo, goccia a goccia si sforma e si scioglie.
Ogni mia cellula si ferma e avvizzisce. Volevo che fosse così, piano e scandito precisamente. L’ultimo pensiero da chiudere e dimenticare mentre le palpebre molli e piene mi proteggono dal resto.
Se dovessi morire domani, scriverei così:

La prima volta che t’ho detto ti amo non era stata la prima volta. Te l’ho detto una notte mentre ti guardavo dormire, ma tu non mi hai sentito.
L’ho detto piano e l’ho messo al sicuro.

[2010]

Chiara Reali | Il giorno del mais

Lui continuava a uscire ogni mattina ma tornava più tardi o non tornava per giorni o per settimane e quando tornava era un’apparizione e aveva un odore diverso.
Lei lo accompagnava – lui, che era sempre andato ovunque da solo – e ripeteva, Va tutto bene, anche quando nessuno le aveva chiesto: Come vanno le cose?
Ma era rassicurante sentirla così, dava un significato diverso ai silenzi e a certe parole che avevo intuito; e poi c’era Ginia che mi faceva compagnia e a volte si fermava a dormire, potevo mangiare quando volevo e guardare i film in seconda serata.
La libertà mi faceva girare la testa: non sapevo come riempire quei vuoti che non conoscevo, e capivo che c’era qualcosa di profondamente sbagliato, che certi orari e certi momenti non erano fatti per me, non ancora, mi andavano larghi come le scarpe che a volte rubavo a mia madre, o i suoi reggiseni.
Non ero riuscita a salutarlo, quando se n’era andato per l’ultima volta stavo ancora dormendo; ho
pensato che ci sarebbe stata un’altra occasione e, per un po’, ho fatto finta di niente, ho aspettato.
Un giorno che ero più triste degli altri le ho chiesto: Ma quando ritorna? E lei mi ha risposto: Il giorno del mais. Si è voltata e ha nascosto il viso dietro alle mani come in quel gioco, cucù? Ma non le ha più aperte.
Ha preso un bicchiere dal lavandino, non l’ha nemmeno sciacquato: Ho sete, ha detto, l’ha riempito e ha bevuto in un sorso, strizzando gli occhi e la bocca.
Se non l’avessi assaggiato una volta, quel vino, avrei creduto che fosse aspro come le pesche quando non sono mature – un pomeriggio che ero a casa da sola con Ginia mi ha fatto chiudere gli occhi e aprire la bocca per poi infilarci le dita che sapevano di sale e di amaro ma in fondo era buono, quel gusto, mi ha messo sulla lingua lo zucchero, il pepe, la noce moscata, mi ha detto: Indovina? E poi ancora origano e peperoncino: Indovina? Latte e succo di frutta e, alla fine, un po’ di quel vino. Era un miscuglio di miele e di acini gonfi e di qualcosa di adulto che non conoscevo; le ho detto: Ancora, ridendo, tendendo la lingua. Me l’ha toccata con la punta della sua lingua che sapeva di assenza di ogni sapore. Che schifo!, ho gridato, mi sono asciugata dalla sua saliva con il maglione. Ho cercato sul dizionario e nell’enciclopedia.
Il mais è: un cereale con infiorescenza a pannocchia.
Il mais è: semi commestibili e gialli.
Ogni parola ne conteneva almeno un’altra che non conoscevo, e allora ho telefonato a Ginia, le ho chiesto di accompagnarmi al supermercato; volevo vedere il mais da vicino ma non gliel’ho confessato, balbettavo cercando una spiegazione e lei, ridendo, mi ha detto: Va bene.
Quando ci siamo incontrate mi ha sfiorato la schiena come se avessi qualcosa, un insetto o un capello o una macchia, mi ha pizzicata tra una scapola e l’altra e mi ha chiesto: Ti sono venute? E io non capivo che cosa, ho risposto: Eh?, che vuole dire no oppure sì o non so o non sono sicura.
Tra gli scaffali ho cercato e trovato una scatoletta rotonda, mentre Ginia ha preso una confezione di pannolini da donna, mi ha spinto il gomito contro e mi ha detto: Non vergognarti, non c’era bisogno di comperare altro. Che cosa hai preso?, mi ha chiesto. Del mais?
Ho annuito e sorriso come se avessi avuto un segreto al quale non davo importanza anche se mi brillava negli occhi, ho deciso che avrei domandato a mia madre di queste cose che arriveranno o verranno, e chissà se andranno via come ha fatto mio padre.
Di notte, ho sollevato il coperchio di latta e i chicchi erano gialli e dolci e croccanti. Li ho mangiati uno alla volta e ho domandato: È questo il giorno che aspetto?
Ascoltavo le ombre e tutte sembravano lui, lo trovavo anche nel canto degli ubriachi e nel cinguettio degli ultimi uccelli. Sei tu? Nessuno ha risposto, solo la notte è venuta a trovarmi e mi ha addormentata.
Il giorno del mais. Pensavo: il mais, dove cresce? Il mais cresce in campagna, in pianura.
Doveva trattarsi di una di quelle sagre alle quali andavamo d’estate. Nel giorno del mais ci sarebbero stati lunghi tavoli e panche, tovaglie cerate a quadretti, bicchieri di plastica e tendoni da circo a spicchi come le mele, un uomo in grembiule a rosolare pannocchie nel burro; un altro avrebbe venduto ciambelle coperte di zucchero a velo. Ci sarebbe stata una giostra con i cavalli e io avrei trovato un gettone per terra e l’avrei pulito alitandoci sopra per inumidire la crosta di giorni e di notti, di sole e di pioggia.
Avrei scelto il cavallo più bello e l’avrei montato stringendo la pancia cava con le ginocchia abbronzate – il giorno del mais doveva essere per forza d’estate – poi lui sarebbe arrivato, l’avrei salutato puntando i piedi dentro alle staffe per darmi lo slancio e saltare e corrergli incontro ma lui mi avrebbe fermata con un sorriso, mi avrebbe aspettata e poi avrebbe fatto un giro di giostra con me, stringendomi per sollevarmi e farmi prendere la pelliccia sempre per prima, avremmo potuto girare e girare senza pagare neanche una lira.
Ne ho parlato con Ginia un pomeriggio che fuori pioveva e non c’era niente alla televisione.
Sua madre ci ha portato un bicchiere di latte a testa e poi è uscita dicendo: Fate le brave; noi siamo rimaste sedute per terra a guardarci la punta del naso.
Certo che sei proprio noiosa, mi ha detto spingendomi via. Io ho alzato le spalle e le ho detto: È come se fossi piena di paura e mi fa pure male la pancia, potresti pensare a qualcosa anche tu. Allora ha deciso: Se io ti racconto un segreto e tu mi racconti un segreto restiamo amiche per sempre.
Va bene, comincia; No, prima tu; L’idea è stata mia e io decido, ha detto, fissandomi dritta senza abbassare lo sguardo.
Allora le ho parlato di lei e di lui e del poco che mi ricordavo del giorno in cui non era tornato – non era nemmeno un vero ricordo, l’avevo ricostruito prendendo pezzi di altre giornate e mettendoli insieme; nessuno mi aveva avvertita: Stai attenta, oggi non è come ieri e domani sarà ancora diverso, non ci avevo prestato attenzione. Le ho detto anche questo, alla fine, voleva la verità e i miei segreti, e io la sua amicizia per sempre che credo che fosse almeno fino alla fine della scuola media.
Mi sono nascosta la testa tra le ginocchia e quando mi ha chiesto: Ma torna, tuo padre? Le ho ripetuto le stesse parole che aveva detto mia madre: Il giorno del mais.
Mi sento che si sta avvicinando, le ho detto, lei ha alzato gli occhi e ha cominciato a gridare, insultarmi, a tirarmi i capelli.
Si è messa in piedi e ha dondolato la testa; poi si è sfilata la maglia e, Guarda, mi ha detto, indicando qualcosa sotto le ascelle. Non vedo niente, ho confessato; ormai mi aveva dato della cretina e della deficiente. C’erano puntini rossi, come qualcosa che stesse spingendo la pelle: mi sono avvicinata e le ho chiesto: Fa male? E lei mi ha spiegato che si era dovuta togliere i peli e che aveva iniziato a usare il deodorante. Mi ha mostrato lo stick con la palla rotonda e bagnata e mi ha domandato: E tu?
Non mi sembra, ho risposto, ma mi stringevo da sola e quasi sentivo qualcosa affondarmi radici e spuntare.
Ginia mi ha sollevato la felpa sopra la testa e mentre gridavo, Così non respiro, non vedo!, lei ha controllato e ha esultato: Ne hai due da una parte, due peli!
Ho cercato di darle un calcio ma lei mi ha bloccato la gamba in mezzo alle sue, l’ha stretta forte, e allora ho iniziato a stringere anch’io per non esser da meno.
Mi teneva ancora alte le braccia e rideva, Hai le tette più grandi di me!, e per il freddo e per la vergogna mi sono sentita come se avessi due nodi davanti.
Cercavo di liberarmi e lei cercava di liberarsi e siamo cadute sdraiate senza mollare la presa. Ho gridato, Lasciami andare!, ma c’era qualcosa in quello stringere che mi assomigliava e faceva sudare.
Ho ripetuto, Lasciami andare, ma senza ingannare neanche me stessa; lei mi ha risposto e la sentivo lontana: Mai, mai, tu devi restare – in quel momento la mia pancia era un lago e lei un sassolino e c’erano i cerchi nell’acqua e il centro del cerchio più stretto ero io.
Mi ha detto, Ti amo o Ti odio o entrambe le cose e io non ho nemmeno sentito – ero già in bagno e cercavo allo specchio indizi del fatto che avevo capito che il giorno del mai non sarebbe arrivato.

Sasha Tsinski e Ugo Coppari | Dove siamo

Sasha Tsinski | Quindi, dove siamo?

Ugo Coppari | Al Bar Trieste, no?!

ST | Non intendevo questo. Facevo riferimento al tuo nuovo video. In Limbo mobile sembra che tu voglia continuamente mettere in discussione la tua reale presenza in un determinato luogo. Sia il montaggio che lo stesso titolo sembrano volerci dire che quello in cui abitiamo è soltanto un limbo. Cosa stiamo aspettando?

UC |Sinceramente non so cosa stiamo aspettando. Personalmente ho smesso di chiedermi tutte queste cose. Piuttosto cerco ordine e armonia. Si diceva che un artista debba sempre tenere il proprio salotto in ordine, sistemarlo e pulirlo quotidianamente, così quando arriva l’ospite, ovvero l’intuizione, questa sarà ben disposta a fermarsi. Ma questo non ha solo a che fare con la produzione artistica, ma anche con la vita di tutti quanti, di tutti i giorni. Pure le massaie.

ST | E che c’entrano le massaie?

UC |No, in realtà stavo pensando a un servizio che ho visto ieri su Rai2 – Costume e Società. Gli esperti, anche se a dire il vero non so di cosa [dice ridendo e indicando la televisione che è in fondo al locale – NdR], consigliavano alle massaie come risparmiare sulla spesa. Dicevano che ad esempio al mercato il sabato e la domenica si può risparmiare fino al 30% sulla frutta e la verdura, perché ci sono le rimanenze. O che se il pesce fresco arriva in città il mercoledì, ecco che il giorno dopo già costerà qualche euro in meno. Massaie, è solo questione di tempo! Di saper aspettare!

ST | Perché hai scelto proprio l’immagine del limbo? Forse perché come i bambini che abitavano questo luogo indefinito, noi siamo già morti e peraltro colpevoli?

UC |Questa è una bella interpretazione. Sinceramente non ci avevo pensato. In fondo quello che dici è vero, siamo morti bambini e, cosa ancora più angosciante, siamo morti colpevoli. Si diceva che le anime morte bambine galleggino in questo limbo, e che non possano accedere al paradiso perché non avendo avuto il tempo e la possibilità di espiare i propri peccati nel proprio percorso di vita, sono rimaste macchiate per l’eternità. E tutto ciò ha dell’incredibile: come se venissi arrestato ancor prima di tentare una rapina. E magari solo perché avevo un passamontagna in auto. E se ti dico che in realtà faceva solo freddo?

ST | Ho capito cosa intendi. E se ti dicessero che il freddo fosse un movente plausibile?

UC |Non sarebbe credibile, o forse sì. Comunque volevo raccontarti una cosa che mi è successa tempo fa. Ero chiuso in auto e stavo aspettando un mio amico, al riparo dal freddo. Potevo osservare i passanti senza che questi notassero la mia presenza. E vedevo che le persone adulte, quando non sanno di essere viste, si atteggiano come dei bambini, i cui movimenti sono molto meno spezzati. C’era un signore molto elegante, che avrà avuto una cinquantina d’anni e che aveva una scarpa slacciata. Si ostinava a camminare con la scarpa slacciata, a costo di non fermarsi e fare dei movimenti scomodi. Allacciarsi le scarpe ci fa ritornare bambini, in fondo: è un gesto elementare, tra i primi che impariamo: e che poi diventa meccanico. Allora questo signore si apparta in uno spazio buio, si guarda intorno, appoggia una scarpa su un muretto e si allaccia la scarpa. Poi si riaggiusta l’abito in maniera goffa e spontanea, come se fosse a casa sua. E quando ritorna nella zona illuminata, sul ciglio della strada dove aveva parcheggiato la propria auto, ecco che riprende la postura che aveva assunto precedentemente. Eretto e meccanico. E mi sono detto: È un gioco! Ma non sto parlando dei ruoli di Meyrowitz o di cose del genere. È che con gli occhi avevo tolto i vestiti a quell’uomo. E me lo immaginavo nudo, che si muoveva. E pensavo a quando magari faceva l’amore con la moglie o quando magari si masturbava, o quando magari giocava a tennis o che ne so io quando nuotava al mare. Me lo immaginavo sempre nudo e allora vedevo un bambino. Ma nel corpo di un adulto che era già morto: il disfacimento della carne intaccava anche lo spirito.

ST | Hai tempo per un’altra domanda?

UC | Questioni di tempo, come dicevi prima. Mi dispiace ma devo proprio andare. Devo far revisionare l’auto, che mi è stata prestata da mio fratello.

ST | Dimmi almeno i tuoi progetti futuri.

UC |Tirare fuori qualcosa da questo limbo, e trovare i soldi per anestetizzarmi.

Marta Casarini | La vernice ecologica

«Secondo me ce l’hai, dai. Tua mamma non fa i test della pipì?»

«I test della pipì?!»

«Sì, quelli che devi fare la pipì in un barattolo e poi portarla dal dottore e ti dice se sei malato o incinta.»

«No, non li fa. Secondo me non ne abbiamo… perché non puoi usare un bicchiere?»

«Perché lo devo chiudere, scemona, i bicchieri non hanno mica il coperchio.»

«E perché lo devi chiudere?»

«E perché perché perché… cos’hai, due anni?»

«oooh! Cosa vuoi da me, cinno?»

«Un contenitore.»

«Non. Ce. L’ho, ti ho detto!»

«Sì.»

«No!»

«Dai, vai a vedere. Così venerdì a quella stronza della maestra gliela faccio vedere io. Così la smette. Ho già tutto pronto, mi manca solo dove metterlo. Dai, ci vediamo domattina, è arrivato il pulmino. Mi raccomando, portamelo. Ciao.»

Poi si bacia la punta dell’indice della mano destra, tutta piena di croste, ci soffia sopra e sale sul pulmino pullulante di sudore e cartelle.

Io e Fabio abbiamo fatto amicizia così, per le croste.

Nessuno si sedeva mai vicino a lui, in mensa, perché aveva l’abitudine dei paragoni disgustosi.

Appena la bidella svuotava la teglia gargantuesca del suo contenuto di penne al pomodoro, dal fondo del tavolo cominciava a sgranarsi un sommesso rosario di schifezze che si trasformavano in biglie sulle quali ognuno dei nostri compagni scivolava, procedendo a ruzzoloni verso un’inevitabile nausea collettiva.

«Ecco il mostro pieno di viscere, ecco che nelle viscere rosse si incastrano grumi di muco, sembra basilico, ma è muco, ed ecco che la bidella Marisa rovescia tutte le budella sui piatti dei bambini che masticano l’intestino del mostro, mmmh che buono, e come sono belli mosci i suoi organi, belli viscidi di sangue!»

Nessun piatto veniva privato della sua versione splatter: i filetti di merluzzo impanati diventavano piedi di gnomo imputriditi, il passato di carote cerume frullato, persino le fettine di pomodoro fresco, semplici e nude sul piatto di carta, agli occhi di Fabio parevano orrende escrescenze sanguinolente perdute in battaglia da due orchi litigiosi.

Io ridevo. E mangiavo di tutto. Già allora propendevo per assecondare gli istinti, e il mio appetito da ippopotamo era talmente forte da resistere alle ondate di fantasia grandguignolesca del mio compagno di classe.

Ero l’unica bambina a non storcere il naso davanti a un polpettone-infezione, alle verdure-suture e al pane-testa mozzata di cane; ero l’unica a non essere pronta a strillare, alzando il braccino stretto in un golfino d’angora rosa, “ce lo dico alla maestraaaaaaaa” non appena qualcuno mi tirava i capelli.

Ed ero l’unica a non avere paura.

Anche il giorno in cui mi avvicinai – il piatto pieno di minestrone-vomito di leone – e vidi per la prima volta da vicino le sue mani martoriate dalla psoriasi, non avevo paura. Prova ne siano le domande, e la voce, che vengono fuori solo quando non si teme niente.

«Che cos’hai fatto lì?»

«Dove?»

«Nella mano.»

«Niente.»

Continuammo a sorbire il nostro vomito dai cucchiai opachi di vapore.

«Ti fa male?»

«No, ma a volte fa prurito.»

«Ah. Anch’io avrei una crosta, lo sai?»

«Dove?»

«Sul ginocchio. Sono caduta dalla bici. Anche a me prude, perché non riesco mai a farla formare. Tu te le gratti?»

«Sì.»

«Anch’io.»

Fabio smise di mangiare, poggiò il cucchiaio nel piatto e mi puntò gli occhi sulle ginocchia, sogghignando.

«Io me le mangio.»

«Che cosa?»

Il suo ghigno si allargò fino a raggiungere gli zigomi, la voce un sussurro di pregustazione dello scandalo:

«Le croste.»

«Ah sì. Anch’io! Ma il brutto è che mi piacciono solo quando sono belle dure, e non ho mai la pazienza di farle crescere, così devo accontentarmi di masticarle quando sono ancora un po’ molli, e non c’è gusto, perché da molli non sanno di niente. Sei fortunato, tu, che le hai sempre. Io posso mangiarle solo se mi faccio male.»

Da allora, Fabio si legò a me come un koala all’eucalipto, un cucciolo di canguro al marsupio mammifero, un gattino alle coccole, una tenia all’intestino da infestare.

Insieme parlavamo dei telefilm che ci piacevano, uno su tutti Willy, il principe di Bel-Air, e la sua ammirazione per me crebbe quando sotto il pino pelato del cortile gli snocciolai a memoria tutta la difficilissima sigla, senza sbagliare una parola.

Giocavamo a creare collane con gli aghi irresinandoci le dita; insieme facevamo che io ero una piratessa assassina che scardinava le porte con la voce, e lui il pappagallo che viveva sulla mia spalla e ripeteva tutto quello che dicevo ma con voce ancora più forte, così scardinava anche le assi delle navi nemiche.

Ritagliavamo le figure dai Topolini vecchi, e incollavamo la testa di Basettoni sopra il corpo di Paperino, le orecchie di Minnie sui piedi di Gastone, confondendo attitudini e morfologie così come noi confondevamo i nostri limiti, conoscendoci mischiandoci.

Ma, soprattutto, insieme odiavamo molto.

Odiavamo le fighette in golfini d’angora rosa. Giravano tutte con i capelli legati in trecce o code di cavallo e proprio come i cavalli sculettavano al galoppo se chiamate alla lavagna e nitrivano a ogni battuta loffia della perfida maestra.

Odiavamo stare seduti composti con le mani aperte sul banco, il gioco del silenzio, ritagliare le schede e appiccicarle al quaderno senza fare castroni con la colla, non poter ridere durante le lezioni e Simone, il capo della classe, otto anni, diciannove quadricipiti e un carnet di bionde che neanche un pub londinese.

Simone, oltre ad aver vinto il Premio Calcolatrice come miglior studente di matematica della provincia, partecipava a un corso di karate, uno di judo e uno di organizzazione criminale e faceva della lotta agli sfigati la sua ragione di vita. Inutile dire che io, con la mia pancia alla Depardieu e i vestiti di pile, e Fabio, con la sua psoriasi e l’attitudine alla bizzarria, incarnavamo le vittime ideali.

Ci copriva di insulti (neanche tanto originali, a dire la verità, tutta roba già sentita tipo cicciona e ritardato) e aizzava i compagni a fare lo stesso, tormentandoci con prese in giro e tirate di felpa e mutande. Capivamo che Simone e la sua ghenga non costituivano un vero pericolo perché a noi, di loro, non ce ne fregava niente. Non è che avessimo paura delle loro parole, né di ritrovarci emarginati durante il pranzo o la ricreazione. Anzi. Andavamo fieri del nostro essere scartati da bimbi che consideravamo cattivi, stupidi e noiosi nella loro incapacità di confondere il dovere con la fantasia.

Quello che odiavamo in loro era il vuoto. Il loro essere tutti uguali. Il timore di sporcarsi, di parlare di storie, di riuscire a fare qualcosa di diverso da ciò che aveva ordinato la maestra.

Quello che odiavamo era il loro voler fare di tutto per diventare uguali alla maestra.

Quello che odiavamo, più di tutto, era la maestra.

La maestra si chiamava Anna, e mai fu affidato un nome meno adatto a una persona.

Anna ha un suono pannoso, che ti riempie la bocca di delizia candida.

La maestra invece aveva una faccia segaligna di quelle che, se le guardi, sotto i denti ti si conficcano le schegge.

Era così alta da sfiorare la porta con la testa, e come se la sua longitudine non fosse sufficiente, si cotonava i capelli, in modo da sembrare un severo cipresso ritto sul viale che porta al cimitero.

Al grido di «se otto ore vi sembran poche / ci penso io a farvi lavorar», oltre ai compiti canonici da svolgere nel fine settimana, ci imbottiva di esercizi da fare durante l’intervallo.

Se non li finivamo, erano guai. Li chiamava I Doveri.

«Anche in Francia li chiamano così, bambini. I Doveri in Francia li fanno tutti, e se non li fanno, le maestre possono decidere di non far fare mai più l’intervallo, a nessuno, anche a chi ha finito tutti i suoi Doveri. Capito, bambini? Questo solo in Francia. Voi siete fortunati a essere in Italia, ché i Doveri, se non vengono finiti, fanno del male solo a uno, e non a tutti. Siete contenti?»

La maestra ce l’aveva con Fabio.

Siccome nessuno, all’inizio della prima elementare, lo conosceva e l’aveva scelto come vicino di banco, lei aveva pensato di attaccarlo alla cattedra. Gli aveva fatto mettere la sedia a un lato del suo altare, perché diceva che così le era più comodo controllare quello che scriveva.

In realtà, da lì era più facile dargli delle sberle sulla bocca. Con la mano piena di anelli.

Anna era così: all’antica.

Stronza sarebbe un termine più appropriato, e fu quello che adottammo subito Fabio e io, per riferirci all’albero malvagio che si cibava di ricreazione e decideva del nostro futuro.

I giorni passavano uguali, a scuola. E uguali a casa. E Fabio, con i suoi arti pieni di pelle morta, mi era sempre più vicino.

Fino al giorno della vernice ecologica.

Era un giovedì pomeriggio, di novembre, e tutti avevamo il sussidiario aperto su una pagina di scienze pesante come cemento in umido.

La pioggia ticchettava contro i vetri luridi, il pino pelato scuoteva le sue rade chiome in una muta richiesta d’eutanasia clorofilliana, il pranzo a base di ossa di pescecane aveva piombato gli stomaci e le meningi di tutti, che ciondolavamo i capi alla ricerca di un gioco del silenzio che sfociasse in un sonnellino ristoratore.

Anche la maestra sembrava leggere le varie fasi del processo di decomposizione dell’humus con particolare inedia.

Fino a che, arrivati al punto del «o qui succede qualcosa o la scuola implode», scosse la sua testa paralizzata dalla lacca e disse:

«Bambini, per venerdì prossimo avrete un Dovere particolare. Dovete presentare alla classe un progetto, come fanno in America. In America chi non presenta un progetto alla classe viene espulso. Voi siete fortunati a essere in Italia che non viene espulso nessuno ma solo punito con una nota, se non porta nessun progetto. Siete contenti?»

Così cominciò la frenesia del progetto da presentare.

Le fighette volevano costruire tutte una casa per le bambole con le scatole degli stuzzicadenti.

Simone pensava di realizzare un vulcano che eruttava lava di gelatina (che banalità. Visto e rivisto. L’equivalente scientifico del cicciona).

Io covavo il desiderio di presentare in diretta il rigurgito di un bolo di peli da parte del mio gatto Geremia, ma era solo un’idea fumosa, realizzabile forse solo con pratiche che violavano le normative europee sulla dignità degli animali domestici.

Fabio, invece, il progetto ce l’aveva già. Pronto, realizzato mesi prima.

Non me ne aveva mai parlato perché, saltò poi fuori, si vergognava un po’ tanto era geniale.

«Che cos’è?»

«È una vernice.»

«Mmh, come quelle che si trovano in ferramenta?»

«No, è diversa. È una vernice ecologica. L’ho fatta con l’erba.»

Aveva preparato una pappona vischiosa con muschio, trifogli, lattuga, resti di zucchine ripescati dal cestino dell’organico, fieno e una coda di ramarro. Aveva sminuzzato tutto rubando il frullatore a immersione di sua madre, dimenticandosi di ripulirlo e lasciandolo sul tavolo della cucina a sbavare sudiciume verde, procurandosi una punizione di due giorni senza budino.

Ora, tutto ciò che mancava era un contenitore.

La vernice era rimasta a decantare sul ripiano più alto del suo armadio per tre mesi. Adesso sobbolliva ed esalava un magma potente come metano e attendeva tra i miasmi il suo riscatto.

«Si può usare per dipingere i mobili, le pareti, la puoi anche mettere sui vestiti e non va via. Non è tossica, senti che buon odore?»

«Puah, che schifo, toglila, sa di cacca di mucca!»

«È tutta naturale!»

«E come la porterai a scuola?»

«Infatti. Devi trovare il barattolo. Adesso prova a prenderne un po’ e a spalmarla sul tavolo.»

«Sul tavolo?! Fabio, tua mamma ti ammazza. Arrivi a un mese senza budino, minimo.»

«E allora? Sai pensare solo al mangiare, te.»

«Gnè.»

«Dai, prova.»

Ne spalmai una minuscola ditata sul tavolo, e rimasi stupefatta. Pensavo sarebbe scivolata via, liquida e molle come muco di un influenzato. Invece rimaneva appiccicata lì, densa e inamovibile come il catarro di un tisico. Provai a cancellarla passandoci sopra veloce il polpastrello. Niente.

«È fantastica! Funziona!»

«Sì» disse Fabio, e gli brillarono gli occhi di una luce infinita.

Ora, quello che successe fu che io trovai il contenitore adatto.

Sul ripiano più alto della dispensa scovai per caso un barattolo di Nutella mezzo pieno, che raggiunsi salendo su una sedia, spostando tre scatole di corn flakes e scavando dietro quindici pacchetti di caffè. Lo vuotai a cucchiaiate rimpinzandomi di molle crema, ripetendo a ogni piccolo morso di senso di colpa che era per una giusta causa.

«Gliela faremo vedere, a quella stronza. Fabio è bravo gnam gnam e anch’io, e non è vero che non vale gnammmmniente. Gnamgnamgnamcerto, slurp, sarà un trionfo.»

Poi portai il barattolo vuoto e ancora un po’ macchiato di marrone a casa del mio amico, e insieme lo riempimmo di sbobba verdognola. Chiudemmo il coperchio zigrinato con forza da corsari, e attendemmo felici il venerdì.

E poi le fighette presentarono le loro case di cartone.

Simone fece eruttare una colata di ribes guadagnandosi l’eterno rispetto dei compagni e un assai poco invidiato bacio della maestra.

Io alla fine lessi un racconto su come i ragni possono essere considerati nostri amici, considerata la loro golosità per le mosche, facendo arricciare venti narici all’unisono e applaudire in solitaria il mio leale amico.

E Fabio tirò fuori dalla cartella il barattolo pieno di vernice ecologica.

Lo prese con le mani arrossate, lo strinse e non dovette fare molta strada per portarlo fino alla cattedra. Gli bastava allungare le dita di dieci centimetri, non doveva percorrere tutta l’aula come avevo fatto io, sentendomi le gambe molli.

Non doveva essere difficile.

Ma sua mamma, quel giorno, gli aveva spalmato i palmi di NoMorePsoris, una crema americana che sedava il prurito.

E proprio mentre il mio cuore, e il suo, sembravano essere gli unici rumori nell’aula, sembravano sovrastare i bisbiglii di scherno di Simone e le risatine cavalline delle fighette, e i pensieri e le paure e la solitudine e l’illusione, e i giochi insieme e i progetti e il suono ancora più forte degli anni che sarebbero venuti, e il desiderio di come sarebbero dovuti essere, ecco che i battiti cessarono

e

un unico rumore invase ogni cosa.

Di vetro che si rompeva, cadendo sul pavimento

e di una sostanza vischiosa che si rovesciava, sulle piastrelle, indelebile.

Fabrizio Gabrielli | Faccio di quei passaggi, vè?

E CHE VUOI FARCI, HO QUESTO NEO
Non mi faccio abbracciare spesso, io.
Diciamo che è per via di una sorta di paura.
E che vuoi farci, ho questo neo.
Il mio neo, uno dei, è grande e grosso e se ne sta sulla schiena, al centro. All’altezza del gancetto del reggiseno, m’ha detto una volta un medico dei nei, un dermatologo dell’Idi di Roma. Si dice un dermatologo anche se era donna, vè?, medica non si può: come verbo alla terza persona singolare tanto tanto, ma come sostantivo è una bruttura, la medica dei nei; lei sì che indossava il reggiseno, io invece mai fatto, nemmeno nelle fantasie più sconce. Che io poi ce l’ho avuta nelle orecchie più d’una volta, da ragazzino, una frase che diceva dobbiamo andare all’Idi di Roma, e misinterpretavo a Lidi di Roma: Ostia Fregene Maccarese, tipo, pensavo, e montavano subitanee preoccupazioni, dovrò cospargermi bene il neo di crema, riflettevo corrucciato, ero uno di quei bimbi che usano il verbo cospargere, un’infanzia difficile, la mia, uguale a tutte le altre solo in un aspetto, quello per il quale avere otto anni fa rima con ignorare l’omofonia.
Il mio neo è una sorta di bottone dell’amicizia, qualcuno deve averlo premuto inavvertitamente mentre eravamo sul trenino per Fiumicino Scalo, ed ora niente, per quella sbadataggine trenìcola mi ritrovo interdetto agli abbracci. Proprio costretto a tirarmi indietro. Anzi, peggio: ad avvisare, a mettere in guardia, come Nanni Moretti in quella scena di Caro Diario, faccia attenzione ai nei, eh. Che a pensarci bene è un po’ come se prima di baciare mi prendessi la briga di illustrare i movimenti, dunque signorina, ora introdurrò la mia lingua nella sua cavità orale compiendo dei movimenti circolari da destra a sinistra, in senso antiorario: non è una gran bella abitudine, vè?

Carlo m’aspetta al gate, trascino un trolley sovraccarico e lo scorgo con le braccia incrociate sotto la barba. Occhio al neo, quando m’abbracci: è la prima cosa che dico, forse non proprio la prima, sicuro avrò sciorinato un bellalà, oppure un ueh, le ròbe che fanno rumore nei momenti in cui ci si vede da lontano, mi ricordo mica, ora: però son sicuro che il passaggio successivo deve esser stato usciamo, che devo fumare.
Non mi riesce di stare troppo distante dal tabacco, a me.
Diciamo che è per via di una sorta di vizio.
E che vuoi farci, ho questo neo.
All’aeroporto di Cagliari, era quest’estate e sverginavo i miei approdi in Sardegna per le vie aeree, fumavo ancora cammelli blu, avevano quel nome anche di fronte al tabaccaio, dei cammelli blu, dicevo; perdevo un sacco di tempo a farmi capire, dicevan quasi sempre eh?, ed io ripetevo più lentamente, ma esplicitavo mica, spiegavo mica un pacchetto di camel blu. Cammelli. Blu. Ora tutto il tempo di quel botta e risposta lo impiego ad elencare pueblo; rizlabluccòrte; filtriultraslìm. Non che sia meno criptica, come lingua. Epperò è un impiegare il tempo in maniera più fruttuosa, sembra.
Con Carlo parliamo di lettere, potremmo discutere di argomenti meno fumosi, tipo perché è un po’ Simone ed un po’ Carlo, ma non importa: di romanzi ci vien meglio, è tutt’un citarci ed eccitarci con Cortázar e Vila-Matas, avevo una discreta dipendenza da Vila-Matas, quest’estate, nel frattempo aspettiamo che un altro volo a basso costo rimbalzi sull’asfalto e nell’attesa fumare scrittura parlare: viene bene, e piglia bene, in fondo. Siamo gl’unici nell’androne che non indossino una paglietta, o una maglia fighetta, e non è che siamo in Sardegna per bere, ballare, trombare.
Simone e Carlo m’hanno invitato per fare lo scrittore, tipo.
Noialtri s’ha da fare le cose dei libri.

SIMONIA, STENT’A DIRLO
I simoniaci, nella Divin Commedia, stanno al terzo anello, come i tifosi della squadra ospite a San Siro: in castigo per essersi macchiati dell’efferato reato di mercimonio di beni spirituali, gli tocca passare l’oltrevita a testa in giù, fuoco a lambirgli i piedi nudi.
Simone Rossi non indossa le scarpe, non lo faccio da maggio, ti dice, ci sarebbero le infradito ma a piedi nudi si sta più comodi, l’asfalto che ti bacia la pelle dura dei talloni e l’ukulele sotto le dita, non c’è null’altro che ti serva. Io, che Simone abbia capito svariate ròbe più di me son sicuro, e poi non è mica un segreto, si dice un po’ ovunque, dài che l’hai sentito pure tu, dallo Spazio Meme di Carpi al bar del Giambellino, che Simone sia un Mago.
Se leggere pezzi di libri mentre qualcuno suona può essere considerata una mezzaspecie di produzione di beni spirituali, e regalarli ad orecchie fameliche è un po’ mercimoniare, noialtri sì, si è simoniaci, mi ci metto anch’io, che mi chiamo Fabrizio e questa sera voglio provare con un inedito, ho detto prima di iniziare, solo volevo accertarmi che non ci fossero tolfetani o allumieraschi in sala perché sapete, quando porto il katacrascio vicino casa mia non posso mai leggerlo, questo passo: c’è che mentre le scrivevo mi veniva di scimmiottare il dialetto di questi paesotti poco lontani da Civitavecchia, no?, ve l’ho detto già che vengo da Civitavecchia, vè?, dall’altra parte precisa precisa del mare, ed ecco, se stasera non ce ne sono, direi che ci provo. M’han dato fiducia, è strano perché non si dovrebbe dare mai fiducia ad uno che indossa una polo con il colletto rialzato, è quasi un assioma. E invece niente: c’ho provato, che io quando c’è modo di parlare in tolfetano vado in sollucchero, anzichenò, e pure il proprietario del locale, col gilet di pelle ed i baffi da easy rider, m’è sembrato abbia accennato un sorriso.
In fondo alla serata al Dulcis, che a rigor di logica dovrebbe chiudere il festival ed invece è una sorta di gustosa anticipazione, ci stanno le Ichnusa ed i cannonau, i disegni estemporanei di Luca Congia, il mirto che devi assolutamente provare ed i romanzi che devi assolutamente leggere, c’è l’amicizia e il tirar tardi, sempre con Vila-Matas, sempre con gli odradek che pigliano a girare impazziti per la stanza ed il tuo come si chiama?, il mio Lénghero, ha il corpo da nocciolina ed un mood pugnace, diciamolo a tutto l’internet, tumbleriamolo, quanto è figo tumblerare?
Il lénghero mi guarda di traverso mentre m’addormento nel lettino della sorella di Carlo, dove ci son tanti insetti disegnati sulle coperte che quasi sembra d’essere in un coccinellòdromo.

Allo Stentadì, ch’è la residenza autori, siamo tanti e belli.
C’è l’elena, io la chiamo elenini ma sulla carta d’identità che ha lasciato per il cecchino c’è scritto Elena Marinelli (una volta ha letto Georgie Blues allo Zammù, Elenini, me ne sono innamorato, di quell’interpretazione, e non me la scordo più); sta studiando da elettrauto per cercare di mettere in moto una Centoventotto rossa sulla quale, con melliflua perizia, ha stipato le sue novelle preferite, incastrate a dovere, c’è da controllare filtro ed olio, poi nient’altro, solo brumbrum.
Bicio col contrabbasso, perché noialtri non si prende più nemmeno il caffè, senza contrabbasso, dice simonerò, che mi sento sempre un po’ in colpa, se ripenso a Bicio, per avergli mandato a noia Rapper’s Delight ed il di lui bàssico giro: tun-tun-tun, suonalo ancora, Bicio, più aggressivo Bicio, la sugarhill gang potrebbe quasi querelarmi, se solo Bicio facesse la spia.
E poi Elì. Migué. Carlopalì e Marialuì. Tutti lì, allo Stentadì, dò tra le tante cò decidià di fa così: abbeverarci ed abbreviarci.
Ci diamo da subito un’organizzazione che sembra d’essere in un collegio delle suore carmelitane scalze, ma senza collegio, senza suore e senza carmelitanesimo. Non ci resta che il girare decalzaturizzati: scalzi si prende l’acqua in frigo, scalzi si esce a fumare, scalzi si copia il codice dell’internet dalla bacheca e ci si abbraccia quando ci si incontra.
Io no, però, che degl’abbracci ho paura, ho il bottone dell’amicizia spento, sapete.

DEGLI UNIVERSALI
Ho sentito parlare per la prima volta degl’universali che pioveva tutto il cielo. Le professoresse che si davano il cambio sul ring, come cholitas ma meno agguerrite, erano una l’involucro dell’altra. Sintassi ce lo spiegava un truciolo riccioluto, una maschera del día de los muertos, ed era tutt’un magmatico sintagmare amalgami soggettoggettopredicato. Universali linguistici aveva i polpacci di Gigi Riva, il phisique du rôle di Margherita Hack ed una naturale predisposizione al soporifero.
L’esempio di come si somiglino un po’ tutte le mamme del mondo sarà pure sputtanato ma è di sicura presa, diciamolo, una sorta di obolo preventivo, incassato il quale finisci per accettare pacificamente pure l’annichilimento d’una lezione di tre ore sul ruolo dei focus marker nelle lingue cuscitiche, che con tutto rispetto per gl’etiopi sono lingue un po’ del cazzo, le lingue cuscitiche.
Una regola degli universali linguistici dice che se nel tuo modo di parlare distingui tra maschi e femmine, allora nove su dieci che ti poni il problema di far capire se sono tanti maschi o poche femmine. Se una lingua ha genere, ha pure numero. Lo dice Greenwood, dei boschi verdi ci si deve fidare per forza, c’è il fascino orrorifico del mostruoso, nel verde, e pure nei boschi. Tanto più che pei boschi stai passandoci, l’ho già detto che il festival dei libri di Quartucciu si chiama Passaggi per il bosco, vè?, e allora tempo per riflettere ne hai mica: la fiducia deve tramutarsi in fede, cieca, incondizionata.
A Cagliari, quando soffia il maestrale (il maestrale è maschio) di notte in spiaggia (spiaggia è femmina) non ci resisti troppo a lungo, neppure con la felpa col cappuccio. Il maestrale a Cagliari non ci riesce proprio ad essere singolare, se tira un giorno allora ne spirerà per altri due, è sempre dispari, il maestrale, e mai singolare: una ròba singolare, vè?
Ed anche le spiagge, ecco, ce n’è mica solo una, di spiaggia a Cagliari, seguono una numerazione: spiaggia dodici è prima di spiaggia venticinque, che mi sembra pacifico, e su ognuna ti frusta il maestrale, tu stai capelli spettinati tutt’il tempo e non c’è troppa simpatia, in questo accadimento.
Un universale linguistico che m’è venuto pensato a Cagliari, una sera di maestrale, è che in tutte le parole con una doppia zeta, magari pure tripla, c’è come una patina di cattiverìa, d’ostracismo congenito e gratuito: il caddozzo noialtri lo chiamiamo zozzone, facciam pure meglio dei sardi, ne infiliamo tre, di zeta: il caddozzozzone è quel camioncino ambulante che prepara i panini con le salsicce unte e bisunte tuttodì. Allo Stentadì, panini non se ne possono preparare, la cucina è bella ma di figura, non la si può mica utilizzare, ed allora se ti sale la fame l’unica è il caddozzo.
Davanti al caddozzaro non c’è mio, tuo, suo, pur essendoci tu, lui, lei e pure lui, ed alla fine anche io.
Un altro universale linguistico è che in tutte le lingue del mondo ci si piglia la briga di far capire all’altro che io sono io, tu sei tu e quello laggiù, quello che coi guanti di lattice infila le melanzane in mezzo al pane, bene, è lui.

Facciamo così, mettiamo che tu mi racconti quello che ha combinato lui: io prima stento a crederci (allo Stentadì si fanno solo cose che c’entrano col nome, si stenta, si ostenta, si discute con gl’astanti), poi però lo scrivo, senza far nomi, che non sta bene parlar male degli astenti.
“Enrique Vila-Matas un giorno finì che lo invitarono per davvero, ad un festival, lui non sapeva come arrivarci, mi dite dov’è il ponente?, chiese, gli dissero il ponente dov’è che stava e lui marciò, marciò in disciplinevole silenzio, finché non giunse a Limerick.”
Non è importante che tutte le lingue si adeguino ad un certo universale linguistico affinché questo venga considerato tale, pontificava Greenwood, l’importante è che nessuna di queste lo contraddica. Che mi sembra un postulato tremendo, di quelli che ti mettono l’ansia sotto le unghie. Come dire l’eccezione invalida la regola. Mi son sempre chiesto come la prendano, gli undici titolari della regola, il sopraggiungere in punta di piedi del signor Eccezione: buongiorno sono Eccezione e secondo me siete assai bellini con le vostre divise da giuoco, però in campo non potrete scendere mai, non siete davvero una squadra, ciao, me ne vado. Credo non bene, credo a sassate sul grugno, la piglierebbero: meriterebbe la lapidazione ogni volta, l’Eccezione.
A me, mai passata per l’anticamera dell’ippotalamo, l’idea di andare in ferie dalle lettere, e dico ippotalamo perché è in quell’area del cervello che risiedono gli appetiti sessuali: non scrivere volendolo è come desiderare di non avere più un’erezione, una stramba preghiera invero.
Conta poco che quattro scrittori sotto lo stesso tetto passino metà delle giornate a scrivere: l’importante è che nessuno si astenga dal farlo, solo così formerebbero un meraviglioso universale linguistico, e parlerebbero di loro in un’aula magna a romatré, mentre fuori piove tutto il cielo e gli studenti son intirizziti: magari si divertirebbero, quegli studenti, ultimo barlume d’interessantitudine prima di scivolare nel torbido fiume dei focus markers nelle lingue cuscitiche.
Cosa c’entri Vila-Matas con Edoardo Lear e col suo limerick di Lucca stent’a dì, stent’a dirlo, cari i miei bolidi, sono le treqquaranta, la passione per le q doppie non s’è ancora sopita e a Stentadì dormon tutti. O quasi.
Non io: troppo impegnato a non truccarmi da Eccezione, io.

LA MORTE SUA, LA MARTA MIA
C’è sempre una Marta, in letteratura: Marta, nei libri, è la morte sua.
Bisognerebbe chiederlo al Visinoni, che con la morte s’impiastriccia le mani, non fa il becchino ma scrive i noir e cita James Ellroy col suo tono di voce blues, quante volte una Marta è stata uccisa dentro una trama: ci dica, Visinoni, lei che di morte sembra saperne, mentre di Marte non lo so, non conosco la sua Weltanschauung sulle donne dei romanzi né tantomeno le sue conoscenze astronomiche.
Una battuta apocalittica, vè?
Da farti esclamare wow, ma anche no.
Altre ròbe che sono la morte sua: i cardigan di cotone sulle t-shirt quand’è sera, le spillette sui cardigan, sbriciolu(na)glio letto sul contrabbasso e sull’ukulele, il dentifricio sullo spazzolino (prima sul tuo, e poi sul mio), la Nutella sul pane tagliato a tranci. La Nutella sulle scarpe: no. Buenas salenas cronopio cronopio sulle scarpe: sì. Il mirto nei bicchierini di carta: assolutamente. Il porceddu di domenica: vorrei ben vedere.
Di Bolero costretto avevo sempre sentito parlare, sapevo ch’era una ròba simoniaca ma non ero mai stato presente al mercimonio di cotanto bene spirituale, ed è d’un fascino inquietante, Bolero costretto, come il rumore dei pattini sul parquet o l’irrequietezza dei piedi nudi mentre si legge, come i mignoli palmati o la posizione del riposo troppo simile a quella dell’eterno riposo.
Chiara che arriva mentre sto leggendo al Canone Inverso quel pezzo su Vila-Matas che secondo me è easside, mica wesside, Chiara che cinque giorni prima le ho chiesto d’essere per sempre, Chiara che non si chiama Marta ma che con i libri e con le cose che faccio coi libri c’entra sempre: un’altra, la più meravigliosa, morte sua.

L’ULTIMA PAROLA è IMMAGINAZIONE (OPPURE ZACCARSELA ALLA PENSC. OPPURE ANCORA: SENSO)
Alberto Masala, che di cemento e strada ne ha visto e masticato tanto, e ne sa, c’è dell’abbardente nel bicchiere e l’ombra degli asciscini sui tetti delle case, Masala dice solo quattro regole, quattro, per onorare il contratto che hai con il tuo pubblico: cattura la sua attenzione, mantienila alta, fatti seguire, e poi trasmetti senso. Proprio così, dice, trasmetti senso.
Quartucciu è un’appendice nervosa e farwèstica di Quartu Sant’Elena. Ha un senso, dopotutto: è una piccola Quartu, come l’Arena di Verona all’Italia in miniatura, io ci rimasi a bocca aperta davanti all’Arenuccia. Quella grande, quella vera: non mi ricordo.
Per le strade di Quartucciu alle duemmezza del pomeriggio ci sono solo io, io e la canicola, con un occhio solo, l’altro è serrato, l’altro piange, sarà per la salsedine lo stress le cose che non vuoi vedere.
In collera e senza collirio, con tutt’attorno un corollario di Corolla color corallo che corrono il rally, c’è che alle sei presentiamo il katacrascio e io c’ho di quelle madonne che nemmeno ad immaginarle.
“Immaginazione è l’ultima parola, in quel libro di Henry Miller”, me lo dice Carlo ed io ci credo. Immagino, scioccamente e con faciloneria, che immaginazione sia l’ultima parola di Tropico del Cancro, ma mi sembra di ricordare anche che il libro non finisca con immaginazione, né che l’ultima frase sia immaginazione è l’ultima parola, dovrei ricontrollare. Anzi no, non posso: perché io Tropico del Cancro l’ho buttato dal balcone della casa di mia nonna al paese, non è così pour parler, buttare è proprio le mot juste, era un periodo in cui odiavo particolarmente gli scrittori francesi ed in quella parentesi di antifrancesità decisi di farci cadere pure uno scodinzolìo di antiamericanità, Henry Miller m’era davvero andato a noia, era un tempo in cui andava a noia tutto, e la prassi era che prima io e te litigavamo selvaggiamente, poi tu volavi dritto dalla finestra.
In quel periodo là, ecco, vociferavano parla col rap, lui. Avevo l’amaro in bocca, sempiternamente.
[E comunque immaginazione era l’ultima parola che diceva Edgar Varése in un capitolo a lui dedicato su L’incubo ad aria condizionata di Miller, che non è un romanzo ma una raccolta di scritti sul viaggio in America che Miller compie dopo essere tornato dall’Europa, mi correggerà Carlo quando leggerà questo racconto, tempo dopo.]
Il miele è dolce, di prassi. Se ci inzuppi i libri, però, in quel caso no: il miele si fa amaro, come la libreria che sta nel pieno dello struscio cagliaritano e dentro la quale la nike di Samotracia, in mezzo a tutte quelle sneakers e ai writer e all’hiphòppica lingua diventa Naic, è un attimo: dillo e basta, Just do it.
A sentir parlare del katacrascio c’è pure Fabio. Fabio fa una musica che quante volte l’avrai sentito, c’è chi la definisce rumore. In ispagnuolo rumore si dice ruido e si pronuncia con l’accento sulla i, parola sdrucciola dal suono sdrucciolevole. Fabio si fa chiamare Rùido, con l’accento sulla u, se il rap ti va a genio e ne sai almeno un po’ sicuro che lo conosci.
Nell’anno del giubileo ho avuto l’onore di essere su un disco di Ruido, era la traccia quindici, si chiamava Qua si parla di relax e non era un pezzo malvagio, c’ero io col compare della mia crew e pure Moro, oltre alla Fit Prod. Tolgo mise che non mi si addicono, abdico ogni impegno come tipico nei giorni di relax, dicevo in quel pezzo, era il periodo in cui non m’andava a genio tantaròba, tra cui indossare mise che non mi si addicevano. Quando presentò Gli 8 comandamenti, la Fit Prod, s’organizzò un gran concerto a Cagliari: io non c’ero, però il giorno dopo Goppy mi chiamò dicendo “dovevi sentire, goppàre, abbiam cantato la tua strofa tutti insieme. Sembrava che fossi morto”, che doveva suonare come un gran tributo, credo, ed io così lo presi, in buona sostanza: mica m’incazzavo davvero sempre.
Fabio, era l’ultimo giorno di Passaggi, ci ha invitati a Iglesias e noi ci siam giunti con le gambe stanche, a Iglesias c’è sempre una cedrata fresca e Loorto ad attenderti. Erano anni che non ci tornavo, a Loorto, ma dai subwoofer escon sempre suoni potenti, dentro quello studio; Ruido sui quattro quarti se la zacca alla pensc, è un motto nonsènsico ma funziona: ascolta Ruido sui quattro quarti in “4/4” e vedi se non ti scappa di zaccartela alla pensc un po’ pure a te, che non sai cosa significa.

LA(TRA)TI DEI CANI Là FUORI
Che tu ci creda o no, caro mio bolide d’un lettore, è l’onestà intellettuale che parla per me, avrei un fracco di ròbe da raccontarti, su Gianni Tetti; ma c’è un bel dialogo altrove su questo libèllo, perciò non ti rubo tempo prezioso.
Prosegui, non titubare, si parla di calcio nel prossimo paragrafo. No, ho detto di calcio. Niente figa.

COM’UN SALISCENDI, DI TACCO E DI PUNTA
Con Carlo discutiamo ancora un po’ di lettere: potremmo snocciolare argomenti meno fumosi, tipo perché è un po’ Simone ed un po’ Carlo, o cosa ci sia di davvero imperdibile a Nebida, ma non importa, di romanzi ci vien meglio, di romanzi e di pallone.
Una ròba che non t’aspetteresti mai è che Carlo tifa l’aèsseroma, che è un po’ l’appalesamento della veridicità vendìttica: l’aèsseroma sembrerebbe essere davvero quella cosa che ti fa sentire amici anche se non ci si conosce, e che ti fa sentir vicini anche quando si è lontani.
Te lo dice con rabbioso rimpianto che giuocava al calcio, Carlo, laterale sinistro d’attacco, filiforme e nervoso come un Cristiano Ronaldo meno glam e più sudato, testa bassa e ginocchia appuntite, lunghe leve e pedalare sulla fascia, su e giù, un calcetto al terzino, un dribbling stretto, Carlo che però dentro ce la buttava mica mai, ti confessa. L’inno trasteverino, quello che ad un certo punto s’inerpica sulle alte vette della spocchiosità minacciosa intonando mo’ so dolori perché Roma ce sa fa: io non lo so se Carlo l’ha mai canticchiata, quella canzoncina, se la conosce. Provo a raccontargliela mentre attraversiamo lo stagno di Molentargius, ci sono fenicotteri ovunque, somigliano molto nella mia immaginazione alla mise che doveva avere Carlo quando scendeva in campo, i fenicotteri. E immaginazione è l’ultima parola. E no: non la sapeva, la canzoncina in cui ad un tratto si gorgheggia e quanno che comincia la partita ogni tifosetta se fa ardita, tifa forzaroma a tutto spiano con la bandieretta ‘n mano perché c’ha er còre romano.
Però amava i colpi di tacco, Carlo, ed i passaggi di punta, i tocchi di genio, quelli che non ti aspetti, quelli che sopraggiungono inattesi, come la scalinata per affacciarsi dalla laveria di Nebida, centinaia e centinaia di gradini scavati nella roccia che si tuffa nel mare azzurrèrrimo.
Si scende? Si scende.
La gravimetria è una scienza esatta, se non la conosci non è grave: è una branca della geofisica che si occupa di studiare i campi gravitazionali. Detto in soldoni, com’è che cade ogni cosa che per ineluttabile destino deve cadere. Intrufolarsi negl’interstizi dell’opificio come filoni di rame tout venant è tutt’un precipitare gravimetrico; dentro le laverie ci si arricchisce, lo facevano un tempo il piombo e l’argento, oggi è come se fossimo un po’ pagliuzze minerarie anche noi, risucchiati dal libeccio che t’accarezza la schiena e t’invita al volo, atavici richiami in tabarchino sussurrati dalle spiagge dell’isola di San Pietro.
Scendere si scende, basta poggiare il tacco e lentamente adagiare la punta sul gradino, se t’arrischi in un punta punta punta finisce che ti esplodono i polpacci, bisogna saperci andare di fino, con la scalinata della laveria di Nebida.
Che sembra un po’ come quando scrivi un libro, incespicare e discendere senza guardarti indietro, precipitare con l’occhio fisso all’orizzonte, con un briciolo d’incoscienza stretto in pugno fin quando arrivi, stancamente ma arrivi, respiri il corbezzolo e tocchi le foglie del mirto, hai la pietra ruvida e calda sotto le gambe, e non sei che a metà del viaggio. Che poi dovrai pur risalirla, la china, tornarci, sui tuoi passi, capire se puoi permettertelo ancora, quel punta tacco punta, o se dovrai piuttosto limitarti ad un passaggio col piattone interno destro. È la teoria del saliscendi, del daje de tacco eddaje de punta.
Io non lo so se a Isacco Newton era mai passato per la testa di mela bacata ch’aveva questo pensamento, però la gravità è anche quella che scende sui volti quando c’è da dirsi che poi alla fine ciao, prima di trasvolare altrove.
E va bene gl’abbracci, le pacche, i ci si vede, però ecco gli addii: gli addii sono sempre un po’ come spingere un bottone in down.
A Masua c’è un tramonto dietro il Pan di Zucchero che non vorresti mai doverlo raccontare.
E dovrei esser triste, vorrei sul serio, ma non ci riesco.
È che per via di quel bottone dell’amicizia in perenne stato off, sono interdetto anche alla malinconia.
Che volete farci: ho questo neo.

Elena Marinelli | Clementina

Non ti piace?

Lungo.

A me piace, mi fa venire in mente i mandarini senza semi, a tutti piacciono i mandarini senza semi, tu ne andavi matta quando eri piccola.

Clementina ha il naso piccolo e gli occhi azzurri, i riccioli neri sempre corti che le scendono sulla fronte e spesso mi guarda dormire al pomeriggio mentre mi dondolo sulla sedia del nonno in negozio, durante la pausa pranzo. Il suo è l’unico negozio che sta chiuso dalle 13 alle 15, perché il nonno non ha mai ceduto all’orario continuato, per principio. Come non ha mai ceduto agli yacht, per lo stesso principio: c’è un orario per tutto. In quello si mangia, dice e gli yacht non mi piacciono, ce le devo mettere io le barche nelle bottiglie, perciò decido io, o no? e si rivolgeva a Clementina prendendole delicatamente il mento e lei lo guardava e basta.

Sui tavoli di legno del negozio e sulle mensole ci sono le bottiglie di vetro fatte apposta per tenere dentro i vascelli, le barche, i sottomarini, le pagode. Qualcuno ci mette anche gli yacht. Noi no. Il cartello diceva così da circa sei anni, era sistemato un po’ storto sulla finestra e rivolto con uno spigolo al mare. Era tenuto in un solo punto da uno spillo con la capoccia nera di plastica, che finiva sul vetro con una ventosa. Ogni tanto questa si staccava, quando il sole sbatteva forte e asciugava la saliva del nonno attraverso il vetro.

Sta piccina non è che ci cresce muta?

No, nonno, non ci cresce muta. Parlerà quando ne avrà voglia. Intanto ascolta, il che non è male per niente.

A me sembra normale che parli poco, in generale, non è come gli altri bambini: se vivi con tua zia e tuo nonno non puoi essere come gli altri bambini. Lo sai anche se non te l’ha detto nessuno. Lo senti. Lo vedi. Lo ascolti. Ogni volta che ti guarda, Clementina ti sta dicendo di perdonarla, ti guarda e non dice, lo sa che vorremmo ci parlasse di più, allora chiede scusa, tutte le volte come se si sentisse già in colpa come un adulto.

Non è normale che fissa.

Sì che è normale nonno, ha paura che non ti svegli.

Ma le dovrà passare ‘sta paura.

Le passerà. Ma se comprassimo quelle cose che servono per attaccare le ventose? Quelle che hanno lo spray?

Ma no, la mia saliva tiene.

E poi irrimediabilmente la ventosa si stacca, cade a terra, io mi sveglio e Clementina è lì, tra le mie braccia, che mi guarda fisso.

Si accoccola sempre e non me ne accorgo mai, sembra un gatto, si arrampica sui braccioli con una gamba alla volta e poi si poggia pianissimo con la testa sulla spalla o vicino al collo. Non è molto pesante, è ancora piccolina e parla poco. Ride spesso però e guarda le persone dormire, a volte ti accarezza la fronte, se la corrucci un po’, col dito vuole sempre allargarti la rughina sulla fronte o quelle intorno all’occhio e mette a dormire le bambole nel suo letto mentre lei gioca con le bottiglie senza romperne mai una.

Mentre dormo, ogni tanto Clementina mormora una ninna nanna facile, dice due cose e le ripete sempre, poi quando mi sveglio mi guarda fisso e so che vuole sentire una storia; a lei non piacciono le favole, vuole sentire le storie di Emma e di Teresa, sua madre, le mie, quelle del nonno e di Orazio, lo zio che ha il negozio di frutta e verdura cento metri più in là.

Non le piace giocare fuori e il mare lo guarda spesso da lontano, sulla balaustra del lungomare, tra un buco di inferriata e l’altro oppure, al massimo, sul bagnasciuga quando è tardi e il sole si fa arancione come la sua maglia preferita. Quando vuole andare a casa, mi tira un lembo di camicia, se sono assorta mi chiama piano.

Zia, ho fame.

Cosa vuoi mangiare?

Pane e pomodoro.

E basta?

Boh. Pane e pomodoro.

Giulia cerca qualcosa sbuffando. Tiene in mano le scatole da buttare e scoperchia i cesti di vimini nel retro. Sono tutte cose da buttare, ma lei non RIESCE a liberarsi di qualcosa. Continua a cercare, prima nei cesti di sotto, poi in quelli di sopra; poi mescola i coperchi, non li chiude bene. E allora sbuffa. La guardo: io alla finestra a finire pane e pomodoro e lei lì a sudare.

Giulia, che cerchi?

Niente, niente, chiudi la porta che mi vedono da fuori.

Mi avvicino piano e guardo dentro.

Non hai niente da fare?

Sbircio. Non posso?

No, che sbirci? Clementina dov’è?

Gioca con le bottiglie. Vai.

E dai ma’, che cerchi?

Niente, non cerco niente. Vai.

Ma è una roba per domani?

Smettila.

Ho capito, è per domani.

Dove la porti domani Clementina?

A mare, come al solito. E a giocare sull’altalena. Come al solito.

Quando capirà che il funerale lei lo passa sull’altalena non le piaceranno più, le altalene.

Ne abbiamo già parlato, ragazzina saccentella. Clementina in chiesa non ci viene.

E io pensavo sempre: amen.

Come si scrive yatch?

Mmmm…y-a-t-c-h.

Una sola c?

Sì.

E dove va la t?

Prima della c.

La prima volta che il nonno mise una nave in bottiglia era una zattera. Gli piacevano le cose difficili a quel tempo e la mano destra non gli tremava mai; ogni tanto la sinistra sì, ogni tanto, dice, la sinistra trema perché la destra non può, allora lei trema per tutte e due. La prima volta ha messo una zattera nella bottiglia di vino rosso della cena della sera prima, pulita, tolta l’etichetta, strofinata via la colla, ci doveva mettere dentro qualcosa e non poteva permettersi modellini costosi o vele complicate. La cena era andata bene: in tavola c’era una pasta col pesce molto saporita, a parte le cozze, quelle non si sono riuscite a mangiare perché erano andate a male. La pasta era fatta in casa, cavatelli, poi pomodorini freschi e cicale, gamberi, gamberetti, gamberoni e calamari. Al nonno piacciono i crostacei: un giorno ha visto salpare una nave piena di giapponesi dal porto mentre mangiava almeno cinquanta gamberoni e senza problemi di stomaco. Era giovane, ma giura ancora oggi di farcela.

Solo che non mi va.

Fai bene, è che pensi di sentirti male.

Clementina, non la ascoltare a questa. È invidiosa.

Clementina ride, le piace sentire la storia della zattera in bottiglia, è uno dei modellini che le piacciono di più, quello con cui gioca più spesso e quello che il nonno lucida ogni mercoledì. Io non mi ci avvicino nemmeno, Giulia men che meno: noi due abbiamo il terrore di spaccare quel vetro anche solo passandoci vicino. Sarebbe come infilare due dita a fondo nei suoi occhi.

Aveva assemblato la zattera pezzo su pezzo tutta la notte, dopo aver lavato i piatti, senza andare a dormire; aveva portato la nonna Emma a casa a piedi, si era fatto vedere da suo padre e poi si era nascosto per due minuti dietro il cespuglio accanto ai gerani, dove c’era buio per mandarle baci con la mano da lontano. La difficoltà più grande l’aveva incontrata verso mattina, per legare insieme con il filo sottile tutti i blocchi di legno e metterci sopra la nonna, seduta a guardare verso il collo della bottiglia. Non c’era nessuna figura bruna al negozio dei pezzi, come lo chiamava lui, nemmeno una con un vestito celeste, perciò si accontentò di una castana coi capelli lisci e lunghi con un vestito ruggine. I capelli diventarono neri in mezz’ora, ma la faccia non era tagliata bene, non era quella lì, non aveva il sorriso accennato e gli occhi timidi, aveva le pupille troppo piccole e le iridi troppo chiare, non era la nonna Emma.

Il nonno ci mette sempre almeno dieci minuti per pulire i colli di bottiglia perché sono stretti, le sue dita più grosse di quando era giovane e il pezzo di cotone liscio sul vetro va strisciato piano, per non farlo incrinare. I colli di bottiglia per definizione sono limitati, si stringono apposta per darti l’ebrezza della difficoltà, se non ci fossero loro, il nonno non sarebbe così soddisfatto, alla fine.

Ci sono gli omini, nonno.

Dove?

Qui.

Ci sono degli omini che corrono via dal collo di bottiglia, inciampano se non si mettono in fila indiana, si inciampano addosso perché lo spazio è troppo poco.

Togli il tappo nonno.

Perché? Poi ci va la polvere.

Ma poi gli omini non respirano, si addormentano.

Ma poi si svegliano, facciamo una sveglia per gli omini delle barche. La mettiamo sulla mensola.

E se non si svegliano?

Certo che si svegliano.

E se non si svegliano?

La zattera quando ci gioca Clementina va sempre lenta; per fare tutto il tragitto della mensola, da casa fino al Capo del Mondo, come dice lei, ci mette almeno tutta la mattina e il dopo pranzo, alla riapertura delle quattro mancano solo pochi metri alla capitale vicino al mare. Prima di attraccare zattera e bottiglia, mima le manovre come le vede nel porto e si concentra, per quei minuti non ascolta più nessuno. Poi finisce, sta ferma un minuto a guardare il porto finto sulla mensola e corre via.

Ma che c’ha ‘sta piccina?

Niente, corre.

Per tutta la stanza?

Sì, nonno dai. Corre.

Ma corre muta.

Eh, sì, cosa deve dire quando corre?

A questo punto corre via anche lui, di solito, guardandomi rivolto all’indietro. Con disapprovazione e sussurra: amen.

Mentre corre, Clementina ogni tanto alza le mani a mimare un aereo, altre volte stringe un volante molto piccolo. Fa almeno dieci giri, a volte quindici, fa un po’ di rumore, poi sta ferma a lungo. Se le chiedi, ti dice che va sul deltaplano, non sull’aereo, gli aerei non le piacciono, non riesce a dire la parola aereo, si ferma alla a, e poi dice nono, è un deltaplano.

La parola deltaplano le è venuta subito, la prima volta che l’ha visto su un volantino al parcheggio, c’era una promozione per comprarne tre di colori diversi. Dito indice diretto e veloce e l’esultanza: deltaplano!

Mamma mai. A dire mamma non ci prova nemmeno; se le chiedi di provare a dirtelo, magari prendendole il mento, come per creanza, lei sbadiglia e ritira la faccia oppure se ne va o si alza da tavola senza chiedere il permesso, prende il piatto pieno e il cuscino della sedia per andare a mangiare fuori e la violazione di quello spazio della parola non te la perdona facilmente.

Eccola! Finalmente.

Che ci fa nella cesta di vimini?

Non lo so, stavo impazzendo.

Non potevi metterne un’altra?

Giulia si mette sempre la stessa camicia nera, a maniche lunghe ma larghe, con dei bottoni grandi, si raccoglie i capelli e si guarda a mala pena allo specchio, prima di uscire. La guardo che si veste, sempre di fretta, e poi la seguo in bagno e nell’altra stanza, mentre raccoglie le mie cose in giro sulla sedia e mi rimprovera il disordine. Passiamo davanti al nonno che sbuffa e sembra che russa, mentre si fa il nodo alla cravatta, dice sempre che non l’avrebbe messa questa volta, che luglio è infame, ormai l’estate è a luglio, ad agosto i camioncini del gelato potrebbero fare anche a meno di passare.

Clementina è sempre arrabbiata e insofferente, non sta ferma per più di cinque minuti, non vuole le scarpe e si nasconde dovunque, sotto i tavoli e dietro le porte per non farsi trovare da me. La vesto come le pare, coi pantaloncini e non la pettino nemmeno, usciamo mano nella mano e almeno per qualche metro la sento sudata e smaniosa, vorrebbe scivolarmi via ma lo sa: non è colpa mia se deve passare due ore su un’altalena arrugginita.

Dondola e guarda dritto verso gli alberi del parco giochi comunale, alberi non proprio imponenti, potati male, lasciati crescere un po’ a caso davanti a un pezzo di lungomare. Riesce a stare sull’altalena per due ore esatte, prima che le scappi la pipì o abbia fame, riesce a spostare l’orario della merenda e non aver bisogno di nulla per due ore esatte.

Guarda dritto verso il mare, vede onde enormi, e dentro la schiuma bambini biondi e altissimi che vanno in bicicletta sull’acqua pedalando velocissimi ma muovendosi lentissimi. Ogni tanto uno di loro urla, un altro frena col piede e fa il rumore dell’asfalto con la voce, altri ridono a crepapelle perché hanno sentito una barzelletta e nessuno affoga mai, conclude quando me lo racconta continuando a dondolare.

La ruggine batte il tempo di due ore esatte, sulle giunture dell’altalena, rintocca ogni passaggio in basso e il piede di Clementina che si muove da solo. La ruggine è dura e scura, ogni anno di più, si espande ed è quasi arrivata alle maniglie; Clementina sul seggiolino ci sta sempre più stretta e io penso che dovrò inventarmi qualcosa, magari già l’anno prossimo, portarla da qualche parte, prendere la macchina, allacciarle la cintura e portarla a vedere i bambini biondi sull’acqua da qualche altra parte.

Mi spiace per le sue cose che non vedrò mai.

E Clementina sussurrava sempre: amen nascosta dietro la porta della sua stanza.

Ci dispiace per la dipartita, cari saluti e cordoglio. È di Marianna.

Marianna chi?

Marianna la prima moglie di Dante.

Ah! Marianna.

Zia cos’è cordoglio?

È… è… è… è quando hai dispiacere per quel che è successo.

Io non ce l’ho il cordo, cordo, cordo…

No, tu no.

Non è per tutti?

No, Marianna lo dice a tutti noi. Tu non c’è bisogno.

Com’è che si dice?

Cordoglio, Clementina, ma è una parola difficile.

Cordo. Cordo va bene?

Quel giorno ho iniziato le parole difficili, il quaderno blu della mamma con le parole difficili. Scrivevo la data e dove le avevo sentite. La maggior parte delle parole difficili me le ha insegnate la zia e cordoglio è stata la prima. 11 luglio 1998, ho scritto, un puntino pieno, con la biro e accanto ho chiesto di scrivermi tutte le lettere in fila. Cordoglio.

La seconda è stata mamma, senza maiuscola. Lo stesso giorno. Mamma l’ho detto dieci anni fa, a diciassette anni, la prima volta, da sola nel mio letto coi piedi al mare, mentre pensavo a tutt’altro. Marco m’aveva appena mollato per la mia amica riccia, ma non sentivo una tragedia insormontabile. Il primo che mi lasciava, le mie amiche preoccupate di allearsi contro Tiziana, la nostra amica riccia. Io no, io pensavo che in fondo non era così importante essere mollati. Avevo percezione dei dolori grandi, io. Del cordoglio, che era l’unico dolore del cuore per me, del rimpianto, della privazione, le mie parole difficili erano queste, io non riuscivo a dire mamma, figurarsi se mi preoccupava Marco.

Ero un po’ arrabbiata con Marco, sì, ho scritto mollata sul quaderno, ma l’ho cancellato quasi subito. Era naturale essere mollata, non era difficile. Nonostante tutto è stata la terza parola, l’indomani, il 12 luglio. Nonostantetutto, attaccato, pensavo fosse una parola unica, era nella frase Sta tranquilla, nonostantetutto e ho sentito la virgola col sospiro, ma non lo spazio.

La quarta è stata Yatch, con la pronuncia tra parentesi, così come l’aveva scritto il nonno sotto dettatura della mamma. Io sapevo che era sbagliato, ma non l’ho mai detto. Il nonno pure lo sapeva, ma non l’ha mai corretto, Giulia non se n’è mai accorta, fino a quando la zia una mattina ha urlato:

Ma è sbagliato!

Da anni, te ne accorgi ora?

Vabbè, ho capito, ma correggiamolo no?

No.

Ma perché?

Ma posso scrivere come mi pare?

Ma è sbagliato, è un cartello. Sta appeso fuori al vetro. Clementina, diglielo anche tu, mamma, diglielo anche tu.

Io ridevo, insieme al nonno, Giulia non se ne preoccupava, stava facendo una cosa difficile coi numeri e il fisco, nella stanza di là, che è sempre stata la sua stanza. Io ogni tanto andavo lì e le arrivavo al petto e mi stendevo un po’ sulle sue gambe, prona, come un gatto, mi accarezzava e andavo via. Giulia sa accarezzare. È una di quelle persone che fa le carezze giuste, ti fa sentire la sua mano per bene, non ha fretta anche se sta facendo altro, ti tocca a mani larghe la prima volta, subito per non farti scappare e poi comincia ad accarezzarti nel modo che ti serve e non è sempre uguale, dipende dal tocco di cui hai bisogno, lei lo sa che non sono tutti uguali.

Il nonno è uno che conserva le cose come sono, per questo mette le navi nelle bottiglie, per smetterle di farle andare e venire. Una nave che parte non è detto che torni, potrebbe rompersi, naufragare, tornare morta. Una nave in bottiglia basta guardarla per sorridere. Io sono come lui, a me piace tenere le cose dentro le bottiglie, ci conservavo anche i soldi nelle bottiglie di vetro, le usavo come salvadanai, ci mettevo il tè al limone d’estate e il succo d’arancia. Il mio cassetto ha l’apertura di vetro, ci guardi dentro e ci sono io: il libro che sto leggendo, la musica che sto ascoltando, il braccialetto d’argento della mamma, le ventose del cartello del negozio quando non funzionano più, le lettere e le mail del papà, la foto con la zia a carnevale, una pallina di gomma bianca; ci metto una cosa ogni tanto, ogni cinque o sei mesi circa, devono essere cose di cui non mi posso liberare, nonostante tutto.

Infilo dentro l’ultima arrivata e spingo le altre dietro, poi chiudo piano, non deve spaccarsi il vetro: dentro si vede tutto solo se stai attento più di qualche minuto per mettere a fuoco. Poi devo uscire dalla stanza, non posso stare lì dentro, ho bisogno che le cose si riequilibrino; mentre chiudo la porta dico sempre: amen.

Il prete dice quasi sempre così sia, ma non ci crede tanto. Guarda Clementina che ci sta capendo poco e non riesce a dirle niente che possa farla stare ferma. Clementina è seduta su un gradino col sole sulla faccia, ogni tanto lo guarda e strizza gli occhi, poi li riapre e dice non ci vedo più. Lo chiama il gioco dei ciechi e lo fa sempre quando è agitata e vuole l’attenzione di tutti.

Non ricordo nient’altro. Ogni tanto ho paura di non ricordarmi nemmeno di mia mamma. La disegno oppure ripeto fitto fitto chi era e cosa faceva, come se fosse tutto quel che conta di lei. Inizio dalla data di nascita, cinque maggio, dico che è Toro, che le piacevano i mandarini e il melone, i capelli ricci neri e lunghi e gli occhi enormi, che le uscivano dalla faccia, quando sorrideva, e lei rideva spesso, nonostante tutto. Poi mi viene in mente il resto, faccio un sospiro di sollievo e mi tranquillizzo perché ho in mente il resto.

Ogni tanto ho paura di non sapere più niente a parte quando è nata, io me la ricordo ma avevo due anni l’ultima volta che l’ho vista, non sono sicura di azzeccare i particolari e adesso mi rendo conto di quanto sono importanti i dettagli. Quelli delle navi in bottiglia, per esempio: l’attaccatura perfetta di un lato con l’altro, colla e pinzetta, perché non deve sbavare nulla oppure il nome sulla fiancata, l’ancora un po’ penzolante, il timone non troppo stretto, per farlo girare. Nonno lo sa, io lo so. Lui dice che quando i morti cominciano a diventare troppi, poi le loro facce si accavallano: è normale. Quelli di famiglia si somigliano perché ce li ricordiamo con la nostra mente e non abbiamo così tanta fantasia da memorizzare tutti i dettagli: è per questo che al cimitero ci vogliono le fotografie, ed è per questo che si fa una gran fatica a scegliere le fotografie per il cimitero, ci vogliono giorni e una gran concertazione, saranno le immagini del ricordo condiviso, i loculi sono tutti uguali, ma le facce no, i dettagli ficcati in eterno vengono scelti con attenzione sfinente, perché poi gli altri dettagli, quelli accantonati, si scordano, a un certo punto.

Colleziono le cose per ricordarmi i dettagli, io, come il nonno con le barche, metto i puntini sui fatti per non perdere la memoria; io non li capisco quelli che vogliono dimenticare, davvero. Non hanno mai perso nessuno, quelli che lasciano andare i particolari.

Amen non l’ho segnata subito, c’ho finito il quaderno.