Michelangelo. La grande ombra
Recensione di Antonio Tirelli
Autore: Filippo Tuena
Titolo: Michelangelo. La grande ombra
Edizioni: Fazi, Roma 2008
Pagine: 312
Le vie del racconto sono infinite, si direbbe. Perlomeno, sono molteplici, come molteplici sono gli strumenti che ognuna di queste vie impone, o suggerisce di utilizzare. Nel suo Michelangelo, la grande ombra[1] Filippo Tuena utilizza una fra le strade più tortuose: uno di quei sentieri che attraversano i generi mescolandoli, da una parte consentendo di dissodare vari terreni letterari e attingere ad un bacino creativo più ampio di quello normalmente a disposizione del narratore “puro”; ex contraria parte, mettendo lo scrittore nella difficile condizione di avere molti strumenti diversi fra loro, di difficile utilizzo e di difficile integrazione. Nel nostro caso, parliamo dei complessi utensili che stanno in bilico fra il romanzo corale e il documento storico, i quali impongono di affiancare ad un approccio storiografico l’invenzione narrativa, non tanto intesa come “falso”, bensì considerata come ricostruzione di atmosfera, come aggiunta di pathos al rigore dell’indagine artistica, storica, filologica. Il viaggio che Tuena chiede ai suoi lettori di intraprendere parte da una sola domanda: perché Michelangelo, dopo aver abbandonato Firenze nel 1534, non vi ha più fatto ritorno? Posto l’interrogativo, ci si immerge in un flusso narrativo dinamico e non banale all’interno del quale, con un atto di umiltà letteraria, l’autore lascia che chi legge sia preso per mano dai protagonisti del libro. Ci si scopre sospesi in un’atmosfera di quasi assenza di spazio e tempo, eppure ancorati saldamente ad una rigorosa documentazione che prende vita pagina per pagina, parola per parola. I documenti si animano e si trasformano in persone, e proprio in questo è la pregevolezza del romanzo. Michelangelo è protagonista in absentia, perché a raccontare sono coloro che, in un modo o in un altro, ebbero a che fare con lui. Tommaso de’ Cavalieri, Giorgio Vasari, Cosimo I de’ Medici parlano, e ogni intervento è come un grandioso epitaffio che riassume interrogativi e aspirazioni, che si fa ricettacolo di trionfi, sconfitte, invidie e altruismo. Parlano i servi di Michelangelo, i suoi amori e coloro che più da vicino collaborarono alle sue opere, parla il nipote Leonardo che curò le memorie di quello zio di carattere tanto impossibile quanto impossibile fu l’eventualità di eguagliarlo nella pittura, nella scultura, nell’architettura. A tratti, al lettore più avveduto sembrerà che in Michelangelo, la grande ombra si possano rinvenire echi provenienti dall’ Antologia di Spoon River. Narrativamente parlando, la testimonianza viene resa all’autore, ma l’impressione generale è che – proprio come avviene in Spoon River – i testimoni stiano parlando a noi, utilizzando il Maestro come pretesto per raccontare non solamente sé stessi, ma soprattutto per riflettere sui giorni e le opere umane, sulla grandezza dell’arte e la caducità dei desideri. Sulla vita e sulla morte e sul tempo, sull’arte e sul tormentato rapporto che l’ingegno umano instaura con il potere; tanto più tormentato quanto più l’ingegno è mirabile e quanto più il potere e autorevole o autoritario. Sulla vita e sulla morte. Soprattutto, sulla possibilità che l’esistenza, da materia evanescente e volatile, acquisisca l’immortalità laddove vi sia chi continui a raccontarla. NOTE [1] Il volume è la riscrittura di un libro apparso per i tipi dell’editore Fazi nel 2000, il cui titolo è La grande ombra.
Recensione di Milvia Comastri
Autore: Filippo Tuena
Titolo: Michelangelo. La grande ombra
Edizioni: Fazi, 2008
Pagine: 312
Perfetto.
Potrebbe essere l’unico mio commento dopo la lettura di questo libro. Un libro perfetto.
Non è sempre detto che un libro perfetto sia anche un buon libro. Un testo può essere giudicato perfetto perché, ad esempio, l’autore ha applicato con impeccabile abilità una tecnica di scrittura. Perfetto, cioè, come può esserlo un teorema geometrico. Un testo dove tutto quadra, dove nulla è fuori posto. Un testo, alla fine, il cui risultato è di una gelida, asettica perfezione.
Ma l’aggettivo “perfetto”, quello che a mano mano che procedevo nella lettura di “Michelangelo la grande ombra” di Filippo Tuena era costantemente presente nella mia mente, ha tutt’altre motivazioni. Perfetto come sinonimo di splendido, grandissimo, e forse, irripetibile, unico.
Non ho paura di lasciarmi trasportare dall’enfasi, anzi, so bene che le mie parole sono troppo povere per esprimere quanto valore ( e quanti valori) siano contenuti in questo testo.
Non si può definire un romanzo, non si può definire neppure un libro di storia dell’arte.
E’ qualcosa di talmente vivo, che mi è difficile collocarlo in una categoria.
Ma forse, a questo punto, sarà bene che brevemente io accenni all’argomento trattato da Tuena in questo suo capolavoro.
Tutto il libro prende spunto da questa domanda: perché Michelangelo Buonarroti, vecchio e malato, rifiutò i molteplici inviti dell’altrettanto vecchio Cosimo de’ Medici a lasciare Roma e rientrare a Firenze?
E a tentare di rispondere a questa domanda ecco apparire in scena molteplici personaggi contemporanei a Michelangelo, ognuno con la propria testimonianza, ognuno con la propria storia e il proprio carattere. Ognuno con il proprio modo di esprimersi.
E sta qui, la perfezione. L’Autore sparisce completamente, si annulla, e il lettore si trova ad ascoltare il suono di queste voci, una diversa dall’altra, come se egli stesso stesse conversando con Cosimo I de’ Medici, o Clemente VII, o Vittoria Colonna, o altri personaggi minori, ma sempre legati in qualche modo a Michelangelo. Come se la domanda da cui parte il libro, a questi personaggi, l’avesse posta lo stesso lettore.
E ognuno di questi personaggi parlando di Michelangelo svela qualcosa di sé: delle proprie debolezze, delle ambizioni frustrate, della fatica del vivere, della paura della morte, della fragilità della vecchiaia, delle invidie, degli intrighi e della delusione della vita politica.
Cosicché in questi, che sono personaggi storici, vissuti in un tempo tanto lontano da noi, riusciamo anche a vedere qualcosa di noi stessi. Ed è così che “Michelangelo la grande ombra” riesce ad essere anche un libro di un’attualità sorprendente.
Filippo Tuena ha un grande dono, davvero: non ha solo una scrittura particolarissima e incantevole (nel senso che ci si incanta, veramente, leggendolo) ma ha anche la rarissima capacità di entrare nell’animo del personaggio, sia esso esistito veramente o sia un parto della fantasia. Le pagine non le scrive Tuena, ma le scrivono, anzi, le “dicono” Giorgio Vasari, o Benvenuto Cellini, o il domestico Antonio del Francese. Così come nell’altro stupendo libro di Tuena “Ultimo parallelo” dalle pagine escono le voci di Robert Scott, e del tenente Evans, e di tutti i componenti della spedizione al Polo Sud conclusasi così tragicamente.
Apro il testo a caso, per riportarvene un piccolo brano. A caso, perché ogni capitolo, ogni pagina, ogni riga, ogni parola, ha, in questo libro, la medesima, grande valenza.
Qui si parla del dolore dell’esilio.
Donato Giannotti, storico e letterato
Per capire l’animo di Michelangelo dovete pensare a un uomo solo che sta nel buio della sua camera e sente fuori rumori di festa, risa, allegria e frastuoni. pensate a un uomo che vorrebbe condividere la serenità e che non può farlo perché un’ansia interna glielo impedisce.
Pensate a un uomo che avrebbe voluto una famiglia e affetti e che il destino ha condotto diversamente.
Pensate a un uomo che avrebbe voluto amare e che non ha potuto.
Pensate a un uomo che ha il rimpianto per un volto materno che la sorte ha voluto strappargli quand’era appena un fanciullo di cinque anni.
Pensate alle notti di quel bambino, ai pianti, alle grida inascoltate, all’ombra che gli ha sempre velato il sorriso.
Pensate al bene che gli fu lontano; alla patria negata. Non vi sarà difficile allora figurarvi la somma dei suoi dispiaceri.
E se non vi basta, guardate me stesso, in questo rinnovato esilio veneziano. Guardate un vecchio della mia età. Guardate come il tempo mi scorre sopra, come le passioni mi scivolano via e come tutto mi sembra vano e futile e lontano.
Vivo ospitato in case altrui e mangio alla tavola d’altri. Di me, non ho che il passato. E anche quella memoria è appena percettibile, velata com’è dal danno dell’essere vissuto lontano
Venezia, sul Canal Grande, primavera del 1570
Potrei scrivere ancora a lungo, su questa mia esperienza di lettura. Ma non farei altro che ripetere che il libro è stupendo, e che dovrebbe veramente essere in tutte le nostre case e nelle scuole italiane. E che, se tanto ero rimasta colpita positivamente da Ultimo parallelo, questo Michelangelo ha incredibilmente superato ogni mia aspettativa.