Mese: novembre, 2022

Fabrizio Gabrielli | Quando lo si faceva noialtri, il rap

Noialtri si è vissuta l’epoca pionieristica del rap italico.

Noialtri si è stati nella zona d’ombra larga, imperscrutabile, che s’estendeva tra un Militant A pompato nei centri sociali, monocorde e pure un po’ palloso e i Sottotono che imperversavano su emtivvì e giravano ad heavy-rotation in ogni jukebox perché il testo de “La mia coccinella” era un bel diversivo underground da spiaccicare sulle pagine domenicali del diario, vuote, senza compiti.

Noialtri s’è seguito tutto l’iter. Ma proprio tutto.Noialtri s’è ascoltato, prima. Tanto. Qualsiasi cosa.
Pure Gleastilisti che magari ai più sono passati innotati, ma che scrissero rime d’irraggiunte vette stilistiche, giustappunto, tipo “se t’ammazzo come john fritzgerald ken-ne-dici?”.
S’è deciso di provare, dopo. Scrivendo testi via, via più raffinati. Adoperandosi nella lodevole arte del freestyling ad ogni ora del giorno e della notte.
Una volta, Donato m’è passato a prendere alle due del pomeriggio di un’estate clamorosamente afosa, destinazione spiaggia nera, catramosa, deserta. Si trasformò nella più lunga jam-session a due che la storia hiphoppica ricordi. Otto ore otto di freestyle senza ripeterci, senza sforare nel banale, arrestandosi solo per due tuffi a mare.

Quando ci stavamo dentro noi, Mondo Marcio stava ancora a combattere con lo psicanalista chiuso dentro una scatola, bro.
Noialtri s’è vista La Pina quando le piovevano addosso angeli, quella delle Spice Girls quando le piovevano addosso uomini, Jovanotti quando gli pioveva addosso e basta.
La Pina, in quei giorni gloriosi, rimava ancora per la NientexNiente Production, scriveva lettere incazzate ad AL e si faceva fare le buone cosucce da El Prez, al secolo Esa.
Platinette, che oggi la spalleggia su Radio Deejay, faceva ancora il metalmeccanico al Lingotto.
Quando lo si faceva noialtri, il rap, Neffa non aveva ancora optato per la svolta pop. Alla sua Signorina chiedeva di non tradirlo mai, gorgogliamenti di Giuliano Palma inclusi. Poi sarebbero diventati tutti e due carne da crocifissione, uno cantautore financo impegnato, l’altro skaeggiante maitre-à-penser dei Blue Beaters. La città non era ancora tutta loro, insomma.

Bassi, in quei ruggenti primi anni del Terzo Millennio, non aveva ancora fatto la comparsata sanremesca al fianco di Siria, se ne stava giorni interi chiuso nella sua Fortezza delle Scienze, sancta sanctorum nel quale tutti, in cuor nostro, ambivamo un giorno poter registrare il nostro pezzo migliore e per farlo risparmiavamo soldini preziosi, perché era una spesa sia sobbarcarsi il viaggio che, beh, pagarlo, il buon Bassi Maestro.

Noialtri non sapevamo proprio come poter odiare Esa, neanche se ti fregava sotto gli occhi due tipe al bboy event di Bologna. Gli volevamo bene, al Presidente, come lo si vuole ad un lider maximo, una guida che non c’aveva mai deluso e anzi ci infottava ben bene.

Noialtri, per i CentroTredici, avevamo auspicato un gran futuro, anche se poi – dopo Acciaio – son scomparsi e chi se li ricorda.

Noialtri s’era visto Fabri Fibra alzarsi dai divanetti di un locale romano per salire ed esibirsi in uno showcase devastante che nemmeno l’avresti detto fosse lui, Fabri Fibra, maglione slabbrato, ginsetto sdrucito e udite-udite polacchine, insomma un rapper in polacchine sguardo smorto e joint rullato su quei divanetti che poi lo senti reclamare on the stage e lo vedi alzarsi, cazzo, Fabri Fibra è lui ed era là seduto vicino a noi.

Noialtri s’è disquisito con la effe-i-la bi-la erre-a e col suo deejay ai tempi, Lato, di siepi odorose di timo e di cosa fare e non fare per poi affogare nelle nubi fumose di erba buona. Era il periodo dorato della Clicque Teste Mobili, gli anni antecedenti alla crisi e poi al risorgimento di Mr Simpatia che oggi gira su emtivvì pure lui, reclamandosi applausi e rappando vestito da coniglione in metro.

Noialtri abbiamo vissuto sulla nostra pelle la prima edizione degli Amici della De Filippi, ché c’era Caciara ed era strano come una settimana prima, nella sua cameretta, avessi registrato un pezzo per un mixtape che stava preparando e poi era là, tutti i giovedì sera su Canale Cinque e non t’aveva detto nulla. Noialtri che lo andammo a trovare, il Caciara, quando il tour degli amici di cui sopra toccò la nostra città, si visse pure un po’ di luce riflessa, facendoci largo tra una folla di teenager inferocite e lui ci accolse e che chiacchierate; i carabinieri che gli chiedevano gli autografi e noi che dopo averlo salutato ci vedevamo correre incontro le ragazzine che ci chiedevano “Ma allora lo conoscete? Siete amici suoi?” e tu che gli dici? non ti pavoneggi per il solo fatto di conoscere una star televisiva? Geez.

Noialtri, per dirla tutta, quando si faceva il rap lo si faceva pure molto bene.
Però, erano meglio i Sangamaro.
Gionata avrebbe fatto, di questa affermazione, il suo cavallo di battaglia.
Anche se di Gionata, che ci crediate o meno, c’era stato un periodo in cui non intuivamo nemmeno lontanamente l’esistenza.

C’erano stati giorni in cui la doppia acca, per Gi, non era molto di più di una melensa soluzione di hit commercialotte passate nelle più importanti emittenti radio dello stivale, liaison sentimentali in un certo qual modo invischiato in faccende di rappers o bboy o writerz o semplicemente qualche scopata mentre Albertino smazzava il Wu-Tang a One-Two One-Two.
Noi eravamo troppo impegnati per cagarcelo anche di striscio. Avevamo il nostro bel da fare, in quegli hiphoppici giorni d’appendice di ventesimo secolo, a creare e fomentare crew di skaters, writers, djs e merchandiser, mancava solo radunassimo crew di mignotte e panettieri. Alla fine eravamo centocinquanta e ci conoscevamo a malapena l’uno con l’altro.
Gionata, tra quelli, non c’era. Voci di corridoio dicono che in quel periodo si sbattesse sul lavandino del cesso del porto una che dell’hip-hop sapeva solo che era una scritta da apporre sullo zaino ricalcando certe scritte del diario Magilla.

E allora se li era persi tutti, i bei tempi, quelli di atti vandalici e pezzi su ogni muro del parchetto, di jam sessions negli scantinati con la strumentale della Nassica The message a loop, di megaspedizioni a cercare di attaccar briga coi westsazzi, coi “faggiani” coi suckerz, coi sanpietrini nel portabagagli e salivazione azzerata prima del contatto.
In realtà ancora non avevamo capito un emerito cazzo di come girava questo posto.
Nessuno c’aveva mai impallinato – e mai l’avrebbe fatto – la fiancata della macchina. Giravamo con una sitroenna scalcinata, noialtri. Mica con l’Hummer. Mica con la Bentley.
Quello non era un paese per gangsta, Dio mio, no. Della Cultura sapevamo il minimo sindacale.
Non avevamo sperimentato la raccolta del cotone nei campi del deep south, non sapevamo un emerito del boasting e se ci avessero chiesto chi o cosa fossero le dirty dozens, beh, avremmo risposto senza indugio “Quelli che spaccano al fianco di Eminem e di Dre”.
Non avevamo la benché minima idea di chi fosse Rosa Parks e anzi ci chiedevamo la ragione di tutto quel casino per due negre chiappe posate sul seggiolino di un bianco autobus. Malcolm X aveva per noi la faccia di Denzel Washington, scambiavamo I have a dream con Dream is my reality di Richard Sanderson, e delle Balck Panthers sapevamo solo che uno che li appoggiava, un giorno era salito sul podio delle Olimpiadi col guanto nero in alto sfidando il sistema.
Per noi, l’unico vero ghetto era quello dietro la sinagoga dove andavamo ad azzannare i carciofi alla giudìa da Giggetto al Portico d’Ottavia.
Avevamo un background culturale fatto di Otto sotto un tetto, Tangentopoli, Notti magiche inseguendo un gol nanninicamente e bennaticamente scanticchiato, film di Vanzina e al massimo i Quaderni di Gramsci, che solo il più rosso di noi aveva nella libreria ma non significa che l’avesse necessariamente pure letto, e sapevamo un cazzo di come girasse il mondo là fuori.
Hip Hop in tha house, oh sì, e poi ognuno stava a casa sua per cazzi propri ad attaccare lavatrici e preparare sbobbe per pranzo. Eravamo bisbetiche casalinghe che non trovavano di meglio da fare dello spettegolare tutto il giorno tutti i giorni mentre il sugo cuoce a fuoco lento, molto lento.
Darwin non era un cretino e la selezione naturale, lor signori sapranno, ad un certo punto della storia subentra meschina, operando meticolose vivisezioni e facendo sì che solo gli idonei possano avanzare.
Le mode passano, gli entourages anche, e di decimazione in decimazione assistevamo allo sfaldarsi della pantagruelica accozzaglia di signori dalla braga larga e dalle idee poco chiare. I sanpietrini ammuffivano al fianco della ruota di scorta. Mai che n’avessimo sfracellato uno contro tempie meritorie di punizione.

Noialtri no, eravamo troppo pieni di noi, troppo convinti, troppo infottati per farci sfuggire la situazione di mano e forse anche troppo goodfellaz per rovinarci con una cazzata.
Però ce la sentivamo vergata a sangue sulle braccia, questa roba, e avremmo dato la vita pur di vederla spandersi e occupare i ritagli pomeridiani d’emtivvì. D’altronde, eran i mesi di seminare, quelli là.
Certe volte ci mettevamo seduti a circolo, come all’anonima alcolisti, e cercavamo di spiegarci l’un l’altro come ci eravamo andati a sbattere con la Cultura. Non c’è una spiegazione, non una razionale almeno. Arriva e ti sommerge, tsunami imprevisto. Questa roba spinge, fa pulsare il sangue e la testa sbarella, senti che il mondo irradia le sue vibrazioni sui quattro quarti e tu ci sei dentro fino il collo, senza nemmeno accorgertene. L’inchiostro di china, l’aerosol e l’adrenalina pompano a fiumi nel circuito. E poi vedi che non sei il solo, ci sono fratelli che il mondo lo inquadrano proprio come te e sono dietro l’angolo. C’è Donnie che ti racconta di quando il rap viaggiava a braccetto con una certa sottocultura sinistroide da centro sociale e lui è lì che l’aveva incontrata, la Cultura, in Curre Curre Guagliò della Bisca 99 Posse che ancora non c’aveva spiegato quello che sei per me.
C’è Kader che di mestiere fa il cingalese, la mattina smazza l’aglio al mercato e la sera le rose per locali ma il pomeriggio trova il tempo e la gioia di venirsi a buttare nella masnada anche solo per far rimbalzare la testa e dimenticarsi per un attimo della vita di merda che fa.
Ci sono quelli sciorinano rime che pisciano sul sistema, sui governi, su chi ti comanda a bacchetta e sulle guardie; i borghesotti che vorrebbero riempire le mutande di Karl Kani con le palle che non hanno e quelli per i quali è sempre, solo e comunque lotta armata.
C’è chi ignora come sia fatto un libro e chi mastica tomi di Hobbes, chi fa lo sguattero sui treni per comprarsi le Montana e chi si prostituisce a smazzare tunzettùnze per comprarsi i Technici Duemila.
Non sapevamo un’acca di inglese e non ci fossero stati i testi, nei booklet di certi ciddì di Tupac, forse avremmo ignorato per sempre il significato di All eyes on me.
C’era chi andava dietro al flow riempendolo con naranaranà o fofofofofò, a qualcuno piaceva solo la metrica a prescindere da ciò che c’era nel ripieno, di quella metrica. Eppoi si giustificava, il fofofofante, dicendoti che anche se non c’arrivi con le parole, il significato te lo suggerisce il cuore. Ed era alta poesia, per noialtri, una confessione del genere.

Noialtri, oh sì.
Quelli brutti, sporchi e cattivi, ma solo fuori.
Quelli pieni di fotta.
Paratevi il culo, bro.

[tratto da Katacrash, Fabrizio Gabrielli, Prospettiva editrice – Brain Gnu]

Francesco Satanassi | E se viene la guerra

Quando ero piccolo io, di fronte casa mia, c’era il circolo dei comunisti.
Che poi è diventato bar, poi balera, poi cinema, poi discoteca, poi night club e adesso ci sono i cinesi. I cinesi davanti casa mia hanno questo supernegozio che è come un supermercato di roba cinese che però non si mangia. Hanno tutto. Vestiti, penne, matite, soprammobili, giocattoli, oggetti per la casa, per il giardino, per il garage, per i capelli. Mettono anche un Babbo Natale finto sulla porta quando arrivano le feste.
I cinesi hanno questo super-supermercato che si chiama Le cose di Giulia e tu ci entri e ti prendi un colpo perché sono tutti cinesi quelli che ci lavorano e ti fa strano pensare che un cinese si chiami Giulia, invece è proprio così, perché la figlia-cinese del proprietario-cinese è nata in Italia e lui l’ha chiamata Giulia.
Mia zia, che è nata in Italia e si chiama Laura, quando viene a trovarci va sempre da Le cose di Giulia e compra delle robe che non servono a niente, poi viene a casa mia e le mette in giro.
Dice Guarda come ci sta bene qui e quando lo dice ci crede veramente perché noi facciamo le facce con i pensieri storti, ma lei non le vede mai. Fatto sta che un giorno ha comprato questa gabbia di legno con dentro questo uccellino di legno che cominciava a cantare tutte le volte che accendevi la televisione. E allora il mio babbo, che fa la voce grossa, l’ha preso e l’ha buttato. Dov’è finito l’uccellino? ha chiesto la zia, È volato via ha detto mio babbo cambiando canale. Ché ai suoi tempi non c’era mica Le cose di Giulia di fronte a casa, ai suoi tempi c’erano i tempi che “si stava meglio quando si stava peggio”, perché adesso non ci si capisce niente con ‘sti decoder digitali e una volta non c’era neanche il telecomando e la televisione, infatti quando mangiamo lui dice sempre Laila, che è mia mamma, metti sul tre che c’è il giornaleradio. Proprio così, lui lo chiama giornaleradio invece di telegiornale, come i sovietici che chiamavano cosmonauti gli astronauti. Ai suoi tempi, ai tempi di mio babbo, mica c’era la televisione e infatti tutti lo chiamavano così, il giornaleradio.

Quando era piccolo mio babbo, di fronte a casa mia, c’era il circolo dei comunisti e il ventotto ottobre, tutti gli anni, i comunisti prendevano su a e andavano a Predappio a fare a schiaffoni coi fascisti. Adesso i comunisti non ci vanno più a Predappio a fare a schiaffoni, però i fascisti ci vanno lo stesso a vedere il cimitero, comprare i souvenir e fare i cortei che non possono fare. Questi nuovi fascisti sono anche un po’ leghisti, mentre i comunisti sono sempre uguali e forse è per quello che non fanno più a schiaffoni davanti al cimitero. Chi lo sa.
Mio babbo, comunque, quando era giovane non abitava qui, però la domenica sera andava dietro al circolo dei comunisti, dove d’estate c’era il cinema e c’era il carretto che vendeva i cocomeri. Allora, mio babbo e i suoi amici – che io non so chi fossero – correva sullo spiazzo di ghiaia tra le sedie e passava vicino al carretto, faceva una gran cagnara e uno degli amici fregava un cocomero, poi scappavano per i campi, lo spaccavano sui sassi e se lo mangiavano. Una volta mio babbo si è sporcato la canottiera e a quei tempi non è che avevi tanti panni di ricambio, quindi si è lavato nella fontana del piazzale, ma sua mamma l’ha beccato lo stesso e l’ha riempito di schiaffoni, anche se tutti e due erano comunisti. Allora io penso che, forse, i comunisti hanno cominciato a picchiarsi tra loro, per quello non vanno più a Predappio a fare a schiaffoni con i fascisti.

Quando mio nonno era giovane c’era la guerra e di fronte casa mia il circolo dei comunisti non c’era. Di fronte a casa mia non c’era niente, nemmeno dove adesso c’è casa mia a quei tempi c’era niente.
Mio nonno, dico di lavoro, durante la guerra riparava gli aerei ed era così bravo che quando era finita la guerra era andato a costruire i rimorchi per i camion della Bartoletti e una volta aveva costruito un pezzo di ferro per i rimorchi che era piaciuto così tanto al suo superiore che il suo superiore gli aveva fatto i complimenti. Mio nonno il suo superiore lo chiamava Principale e al principale si dava del voi – che poi anche ai genitori si dava del voi, ma quello che voglio dire è che alla fine era diventato operaio specializzato e aveva lavorato tutta la vita alla Bartoletti. Una volta, quando lavoravi, lavoravi sempre nello stesso posto e non ti licenziavano mai e precario era una parola che non esisteva.
Mio nonno, quando era giovane, viveva nelle case popolari e intanto costruiva casa mia con l’aiuto dei suoi fratelli. Un giorno mi ha detto: Questa casa è tutta di cemento, non come quelle di adesso che hanno i mattoni vuoti dentro e io avevo cominciato a girare per la casa a toccare i muri e sentire il freddo dei mattoni pieni e un giorno con mio fratello ho trovato dei mattoni pieni nell’orto e ne ho lanciato uno contro il muro e il mattone non si è rotto. Allora avevo capito che il nonno aveva ragione, che la casa era di mattoni pieni, però la mamma, che era sì comunista, ma democratica, mi aveva dato lo stesso due schiaffoni perché si era rovinato il muro.
Quando sono diventato grande ho capito che le case le facevano con i mattoni pieni perché erano più sicure quando cadevano le bombe, e oggi, che la guerra non c’è, le fanno con i mattoni vuoti.
E se viene la guerra?

[2010]