Categoria: Modi verbosi

Lorenzo Mari e Claudio Morandini | La musica è un linguaggio?

Lorenzo Mari | Nel tuo romanzo Rapsodia su un solo tema, le riflessioni sulla musica e sulla letteratura s’intrecciano senza sosta, e sempre con estrema naturalezza. Danno luogo a incontri, scontri, contraddizioni, deviazioni, fusioni sinergiche, e, non ultimo, anche ad ampie considerazioni estetiche.

Claudio Morandini | È vero. Molti dei compositori di cui racconto la vita in Rapsodia praticano la scrittura, oltre alla musica. Carl Thalberg si ostina da anni dietro un trattato sull’accordo di settima di dominante (e va bene, qui siamo dalle parti dello scherzo) ed è il curatore del trattato rimasto incompiuto dal suo compagno Ethan Prescott; questi è poco meno che un grafomane, un trascrittore di tutto ciò che gli accade; Dvoinikov stesso ha accarezzato più volte in passato di scrivere su questo e su quello – essenzialmente sul suo antenato musicista e anch’egli poligrafo Joseph Mathias Mayer… Dietro a questa intrusione della scrittura c’è ovviamente una necessità, quella mia di ricondurre comunque alla forma del romanzo, alla narrazione, una materia che sembra appartenere ad altri ambiti. Ma non è solo questo. Prescott, e anche Dvoinikov, almeno nelle intenzioni, si affidano alla scrittura per dire ciò che non possono dire con la musica. Visto che la musica sembra parlare solo di se stessa, erigendo strutture di puri suoni, rifiutandosi a ogni contaminazione con la vita (Dvoinikov ne è convinto, Prescott sembra più possibilista riguardo a una semantica musicale), ecco che la scrittura, le parole vengono in soccorso. Danno a Prescott uno strumento con cui leggere la realtà, o almeno provare a metterci ordine; e a Dvoinikov, addirittura, garantiscono una libertà che la musica, più ossequiosa alle regole proprie e alle direttive altrui, sembra negare.
Entrambi, da musicisti che sanno bene cosa la musica è e cosa non è, tengono ben separati i due mondi. È il romanzo – sono io, cioè – che mescola le carte, e tenta di contaminare musica e scrittura, non solo ispirandosi con una certa libertà a una delle forme meno rigide della musica – la rapsodia –, o a una certa idea di musica a programma, ma anche ripercorrendo i diversi modi possibili con cui la parola può “raccontare”, o “analizzare”, o “parafrasare” la musica.

LM | Pare, tuttavia, che non sia più possibile fare questo attenendosi alla meta-letteratura che è stata tipica del “postmoderno classico”, se mi passi quest’ultima definizione, un po’ paradossale. Dove sono finiti gli scrittori che parlano di scrittori che parlano di scrittori o i personaggi che parlano di altri personaggi che parlano ecc.? Sono stati sommersi dalla quantità di narrazioni disponibili oggi (tanto che andremo incontro, secondo Douglas Coupland, alla de-narrazione)? Meglio rifugiarsi nelle note, e nel loro confronto con le parole? In altre parole, il testo meta-letterario è ormai da considerarsi come un oggetto d’antiquariato? Non serve più? C’è ancora qualche speranza nella riflessione interdisciplinare? Quale?

CM | Da questo punto di vista, anche Rapsodia su un solo tema appare come un oggetto di antiquariato – o meglio di modernariato. C’è sempre qualcuno che, dopo aver letto un mio romanzo, ne nota l’inattualità – il più delle volte, per fortuna, si tratta di un complimento. Non è un problema per me: come ho già detto altrove, mi sento appartenere al Novecento, per ragioni anagrafiche e sentimentali. Soprattutto appartengono al Novecento i miei personaggi, come Dvoinikov, che guarda con disincanto alla fine del mito dell’originalità (ma non è un problema così grave, visto che per lui la composizione è essenzialmente un lavoro di alto artigianato…), e Prescott, che vive invece con una certa spensieratezza in un ambiente postmoderno (ma la contaminazione con il basso, con la techno di DJ Kosmo, lo riempirà di angoscia e di stizza). Per loro la classica, classicissima struttura a matrioska (uno che racconta di un altro che racconta di un altro che…) è un modo accettabile di intendere non solo la loro arte, ma anche la loro vita.
Nessuno dei due corre il rischio di cadere nella de-narrazione; non ne possono sospettare nemmeno il futuro concepimento. Si comportano come “personaggi”, e tendono a leggere se stessi come figure di romanzo – be’, d’accordo, sono davvero personaggi da romanzo. Prescott anzi sembra vedersi come una figura da sit-com… In questo senso, il più compiaciuto dei due è Dvoinikov, che nel racconto della sua vita ritorna quasi proto-novecentesco, e scivola un paio di volte in un decadentismo fuori tempo massimo. Ma lo si perdona, perché per lui inventare la propria vita come la vita di un personaggio di letteratura è un modo per rivendicare un controllo su di sé e coltivare un orticello di libertà.
Tornando alla questione della meta-letterarietà: ho la netta sensazione che ogni testo sia un meta-testo – io, almeno, leggo così ogni cosa che mi capiti sotto gli occhi, al di là del contenuto, come una riflessione sul linguaggio. Non rinuncio al piacere di seguire le avventure corse dalle parole, di indagare la componente “narrativa” del linguaggio. Tu dici che oggi il modello ormai “classico” di meta-letteratura postmoderna è in crisi – e io ti credo, non frequento molto la contemporaneità, seguo di malavoglia i trend editoriali. Che sia sopravvenuto un effetto di saturazione? Troppi scrittori hanno scritto di se stessi o di altri scrittori? Troppi si sono interrogati sulla natura della scrittura? Troppi scrittori in crisi (ora volo più basso), ridotti a macchietta, troppi complessi da pagina bianca? Oppure la meta-letteratura è diventata un giochino superficiale, un ricorso ludico a stilemi, a comodi cliché? O infine nessuno si interroga più sulla scrittura perché nessuno (ora esagero) padroneggia più la scrittura? O nessuno ha più nulla da chiedere alla letteratura, se non placido svago e qualche salto sulla sedia al momento giusto?
Non posso rispondere a queste domande – ma è certo, per dirne una, che il Calvino che indagava le potenzialità combinatorie del narrare non sembra aver lasciato tracce tangibili oggi, tra gli scaffali delle librerie. Anzi, da qualche anno si diffida di quel modello, e lo si fa con uno strano sollievo, come se ci si fosse finalmente liberati da un gran peso. E non parlo da calviniano tutto d’un pezzo, bada, perché c’è ben poco di calviniano nel mio modo di procedere, di accumulare pagine nel corso di anni, lasciando che si creino connessioni e si sviluppino percorsi. Mi manca insomma quel suo senso progettuale della struttura – ma amo il mio modo arruffato di procedere a tentoni. Però sto divagando.
Mi chiedi se la musica possa soccorrere la letteratura nella riflessione su se stessa, attraverso il confronto tra le peculiarità e le differenze dei due linguaggi. Perché no, mi dico. A patto che con “musica” non si intenda semplicemente il mondo colorato di chi vive di musica, la ascolta, la produce, la esegue, la scrive – in tal caso la musica vale quanto, che so, l’architettura, il giardinaggio o qualunque altro microcosmo popolato di personaggi più o meno singolari. E a patto che non si parli di “musicalità” della lingua – questa è semplicemente la cara vecchia retorica dei classici, altro che musica. Ma una letteratura che si avvicina alla musica, ne “imita” le forme, ne esplora le strutture, e allo stesso tempo non si illude di trasformarsi in musica, perché procederà sempre con approssimazione, per analogie o per contrasti – ecco, una letteratura così può avere un qualche senso anche oggi, sarà una riflessione sui fondamenti e sui processi del linguaggio. La cosa può diventare intrigante se, come fanno certi compositori o teorici della musica, si mette in dubbio che la musica possa essere considerata un linguaggio.
Il bello è che non mi sono posto questi interrogativi mentre lavoravo a Rapsodia su un solo tema. Ho lasciato lievitare il romanzo, animato soprattutto dal piacere dell’invenzione, o della reinvenzione – anche se l’ho concluso oppresso da un senso crescente di angoscia. Soprattutto, ero spinto dal desiderio di condividere una appassionata familiarità con la musica. Le riflessioni teoriche sono venute dopo, e sono ancora in corso, come vedi.

Lorenzo Mari | Un weekend (non) postmoderno: le vacanze romane di Tondelli

Un’estate dentro a un weekend, e un weekend che sintetizza, in sei, sette feste, disseminate in tutta Europa, il carattere di un’epoca. È in questa duplice ottica che il fatto di accostarsi al capitolo “L’estate romana”, collocato nelle prime pagine del Weekend postmoderno1 – nella sezione degli Scenari italiani, che avrebbero dovuto essere riecheggiati anche dal primo sottotitolo dell’opera, Scenari dagli anni Ottanta, poi modificato in Cronache dagli anni Ottanta – significa fare i conti con una serie di discrasie temporali.

D’altro canto, è nelle crepe della linearità cronologica e logica che risiede, almeno in parte, il fascino della letteratura, e in particolare quella che è la capacità della scrittura letteraria, in quanto sostanza linguistica molteplice e proteiforme, di non restare ingessata troppo a lungo nelle costrizioni dello stereotipo.

Ancora in altre parole, rileggere “L’estate romana”2, breve porzione di quel monstruum che è il Weekend tondelliano, significa poter tornare ad attaccare – decostruendole – le etichette che sono state troppo facilmente affibbiate all’opera di Pier Vittorio Tondelli, e in primo luogo quelle di ‘scrittore postmoderno’ e di ‘scrittore generazionale’.

Certamente, contro la definizione della scrittura tondelliana come ‘postmoderna’ depongono le particolari rotture linguistiche e culturali di Altri libertini, la presenza del corpo nel corpo della scrittura, le costruzioni romanzesche che non si fatica a definire ‘normalizzate’ di Rimini o di Camere separate, eccetera eccetera… Un po’ più difficile appare la critica all’etichetta di Tondelli ‘autore generazionale’, per uno scrittore che è stato effettivamente attivo nello spazio di poco più di un decennio, e che ha voluto dare una rappresentazione inclusiva e plurale di questa epoca proprio con il libro sotto analisi, il Weekend. (Anche se poi questa è un’opera che si qualifica già nel sottotitolo per essere un insieme di cronache dagli e non degli anni Ottanta, segnalando nello stesso tempo la prossimità e il distacco del punto di vista dell’autore.)

“L’Estate Romana” – ovvero la testimonianza che Tondelli dà della grande kermesse culturale e artistica voluta dal sindaco comunista della capitale Luigi Petroselli, con la direzione artistica dell’architetto Renato Nicolini, nel giugno-luglio del 1980 – è un brano di cronaca, di storia e certamente anche di letteratura che non appartiene di diritto agli anni Ottanta, ma, in funzione delle già citate discrasie temporali, e per una serie di ragioni culturali, tematiche e ideologiche annidate nel profondo del testo, si attesta su una posizione leggermente diversa, più inclusiva.

Gli elementi testuali che mi inducono a queste precisazioni emergono già nello stile con cui un Tondelli poco più che venticinquenne rende conto di un’esperienza di cui è partecipante, spettatore, ma anche anima in fuga. Tondelli scrive l’“Estate Romana”in una sorta di mèlange – irripetibile, con ogni probabilità – di stile giornalistico e di appassionati, più che estetizzanti, accessi lirici. Non avendo ancora iniziato a pieno ritmo3 le collaborazioni con giornali e riviste che caratterizzeranno molti altri pezzi del Weekend, Tondelli dà spazio qui a un tono minore dell’esposizione, molto personale – si potrebbe quasi dire: molto ‘caratteristico’, se questa annotazione avesse poi senso –, che giustifica l’attribuzione del libro da parte di Fulvio Panzeri al genere del ‘romanzo critico’4, sulla scia della definizione che ne aveva dato nel 1965 Alberto Arbasino in Grazie delle magnifiche rose:

“ROMANZO CRITICO: organizzando i materiali (non teorizzazioni ipotetiche, ma testimonianze su spettacoli innegabilmente avvenuti, su una scena o nelle sue vicinanze, nel contesto culturale e sociale del Teatro) secondo la struttura significativa del Viaggio di Scoperta archetipo e costante, come un’iniziazione formativa […]”5

Per apprezzare la sostanza e la qualità di questo viaggio di scoperta, è forse necessario per noi poter seguire il testo passo passo, o quasi. L’attacco è giornalistico, ma di un ‘non-giornalista’, per la precisione di un ‘non-ancora giornalista’6, che sta assumendo la posa di un genere letterario preciso, senza esserne per questo assoggettato (e infatti giunge presto l’auto-smentita, attraverso la dichiarazione di non-contemporaneità e di non-attualità, cioè, di nuovo, di presa di distanza sentimentale e critica). Tondelli ci consegna “Tanti piccoli e sparsi flash per raccontarvi, ora che ormai l’autunno incombe, questa ultima e breve Estate Romana…”.

Ma più che al carro di Tespi, al grande carrozzone itinerante, Tondelli s’interessa al popolo che lo segue, cercando di affiatarsi “con quel disgregato pubblico giovanile che ogni sera, davanti alla pianta della città, puntava l’indice a occhi chiusi e diceva: “Okay, stasera la sorte ci porta tutti quanti proprio… qui!”.

Straordinario passo, a mio avviso, è questo appena citato, in quanto nella massa di persone, profumi e colori che è il popolo degli indiani metropolitani si possono già scorgere i semi del riflusso degli anni Ottanta. E Tondelli approfitta della situazione, cercando subito una storia a parte, quella che si riflette nell’aneddoto di un anonimo “qualcuno” che “in serata, voleva starsene tranquillo e fare il separatista”. La decisione di staccarsi dalla massa, in orrore all’uomo-massa, anche quando ha il volto dell’indiano metropolitano, cede spazio a uno spaccato lirico di grande spessore, che vorrei riportare qui per intero. All’anonimo separatista, dunque, “…poteva capitare anche questo: sniffare l’aria, sempre più a ritmo serrato, e dilatare le narici e chiedersi pensoso: “Ma qui c’è proprio puzza di rosse?” Allora il cane sciolto si alzava e prendeva a slumare il selciato, finché non s’accorgeva di pozzanghere d’acqua schiumosa e rossastra, e allora va lì, s’inumidisce il dito, lo porta al naso e sbotta: “Oibò, ma queste son proprio rose!” Così si avvia nauseato a un’altra piazza, si siede, s’accende la sigaretta, ma storce il naso perché, accidenti, c’è un odore strano nell’aria, un odore secco, un odore… sì, pungente…. esatto, pungente come aghi di pino freschi. Ma certo, qui è tutto un pino silvestre che par di stare in un’abetaia; e in un angolo calma calma l’acquetta verdolina occhieggia impassibile, così che il nostro eroe, capito il trucco, si avvicina, fa il suo bravo esame al liquido e conclude disperato: “Ci fanno il bagnoschiuma a tutta la città.” E allora erra e vaga, ma sempre aromi di cedro, di violetta, di lavanda, persino un po’ di lime dei Caraibi. Ogni piazza, la sua bella insaponata.”

Si tratta di una performance olfattiva di John Cage, ma di questo Tondelli c’informa solo qualche riga dopo. E, appena può, torna sul pezzo, virando, dopo la parentesi poetica, verso una più chiara impostazione filosofica e critica: a Roma, infatti, si stanno susseguendo infatti “alcune serate di brivido, una in particolare di terrore e di rabbia”. Causa di questo sommovimento è l’omicidio, da parte dei vigili urbani – allora armati – della ventunenne Alberta Battistelli, “rea soltanto di non aver rispettato l’isola pedonale.” A poco più di tre anni dagli assassini, politicizzati e comunque innegabilmente politici, nella primavera del Settantasette, di Giorgiana Masi, a Roma, e di Francesco Lorusso, a Bologna, “il fatto” agli occhi di Tondelli, allora studente del DAMS di Bologna, uno dei centri universitari più importanti della contestazione, “non ha nessuna spiegazione possibile se non il disprezzo, il razzismo e la prevaricazione nei confronti del diverso.” Il programma dell’estate romana, tuttavia, non viene interrotto, perché già trent’anni fa, e nella sensibilità, si noti, di una giunta del Pci, the show must go on. Tondelli rileva questa contraddizione, la soffre: “Quello che lascia perplessi, oltre all’efferatezza dell’esecuzione, è che dalla stessa giunta arrivino, nel medesimo tempo, segnali di gaiezza, convivialità e divertimento, mischiati a segnali di repressione, intimidazione e morte. In quelle sere, partecipando ai vari riti dell’Estate Romana, avevamo in pieno questo sapore schizoide in bocca…”. È una schizofrenia interna alla sinistra, un psicodramma le cui mosse Tondelli coglie benissimo: lo spettacolo deve continuare “alla faccia dei volantinaggi dei giovani proletari che chiedevano non mondanità ma blocco degli sfratti, degli autonomi che chiedevano la libertà di Oreste Scalzone, gravissimo in carcere, dei creativi che chiedevano più soldi per le loro iniziative e più distribuzione dei finanziamenti comunali ai gruppi autogestiti, dei radicali che stigmatizzavano la gita in barca sul Tevere come viaggio nelle fogne”. Si tratta, in altre parole, di una giunta del Pci che nega spazio e legittimità alle richieste della sinistra extraparlamentare. Lo fa in nome dello spettacolo, in una replica delle situazioni paradossali che si verificavano spesso, già allora, nei festival cinematografici: “se qualcuno aveva da recriminare non s’incatenava al Campidoglio, ma cercava di boicottare uno spettacolo in cartellone”. Tondelli ne trae una conclusione consolatoria, e comunque culturalmente molto rilevante: se tutto il politico e l’impolitico si svolge entro i confini dell’Estate Romana e dei suoi spettacoli, questo non è altro che il “sintomo (…) che la gran festa, nel bene e nel male, è stata la vera agorà dell’Urbe.”

Agorà che è poi la piazza in cui i giovani dei movimenti arrivano spesso alle mani con i neofascisti, in un rigurgito di Settantasette fuori tempo massimo. Tondelli descrive anche questo e, per farlo, sceglie di non partecipare, fisicamente, agli scontri. “Noi” scrive “che eravamo un po’ di lato a berci Guinness naturalmente, non capiamo tanto bene le urla, le grida, i sottanoni al vento delle veterofemministe e le imprecazioni in romanesco: “Li mortacci” e “La tu’ zia”…” Tondelli, in realtà, capisce benissimo quali sotto- e contro-culture giovanili sono in campo e a margine di questo piccolo intermezzo di scontri politici, e impolitici, di adolescenti, trae questa conclusione, che è anche un giudizio critico militante: “…il canto del bardo è sempre il grido rivoluzionario dell’oppresso o il lamento, struggentemente assorto, dell’emarginato. Altro che Odino7!”

Ma, prima di tutto, l’agorà, dal punto di vista di Tondelli, è dedicata al secondo festival poetico internazionale di Roma, erede dei tre giorni sulla spiaggia di Castelporziano del 1979. Dell’evento dell’estate precedente, Tondelli ricorda la gran bagarre di “minestroni creativi, poesie spontanee e marginali e dagli abissi, cedimento dei palchi, streaking, canti indiani, contestazioni più o meno violente, presenze dei santoni della beat generation”, giudicando tutto sommato in modo positivo il fatto che “in quei giorni, alcune migliaia di giovani e di intellettuali di ogni razza e tribù convissero su una spiaggia e attorno a un palco per celebrare il rito della poesia.”

Nella sua valutazione, non c’è il fatalismo del regista Andrea Andermann, che aveva filmato un documentario su Castelporziano intitolato significativamente Castelporziano. Ostia dei poeti. Andermann aveva utilizzato come una, assai discutibile, chiave di lettura per tutto l’evento il crollo finale del palcoscenico, il naufragio della cosiddetta “nave dei poeti”. Simone Carella, regista del terzo e ultimo festival internazionale di poesia di Roma, giudicò – correttamente, a mio avviso – questa scelta come un’ammissione di colpa un po’ ossessiva, ai limiti del masochismo. Nei fatti, il palco montato sulla spiaggia romana – qui brevemente rievocata, in chiara antitesi con il non-luogo postmoderno delle spiagge di Rimini, che per Tondelli, come si sa, furono il vero “crono-non-topo” della sua contemporaneità – ebbe davvero un cedimento strutturale alla fine della manifestazione, ma questo non fu causato esclusivamente dalle troppe presenze che vi si erano accavallate. Soprattutto, poi, il crollo alla fine della manifestazione aveva avuto un’importanza simbolica presso tutti quei poeti e critici che avevano ritenuto Castelporziano un fallimento, perché troppo pop, o troppo caciarona. La caciara c’era stata, questo è inutile negarlo: oltre ai poeti, era approdata al palco anche buona parte del pubblico, con lo scopo di rivendicare per sé il luogo della poesia e, prima ancora, il luogo della possibilità di parola. Tra questi ultimi, il furore carnevalesco che si esplicitava nel rovesciamento dei ruoli andava di pari passo con la necessità di guadagnarsi le luci della ribalta, luogo sempre foriero di grossolane semplificazioni, come quelle dei poeti improvvisati a colpi di “cioè” e di parlate popolari volutamente stilizzate o quelle di chi portava una ragazzina disabile sul palco per esprimere ‘vera poesia’, contrapponendo questa esperienza dolorosa, eppure crudelmente strumentalizzata, alle ‘mistificazioni’ iper-letterarie di un Giuseppe Conte o di un Cesare Viviani8. Si trattò, più che altro, di gesti e parole inconsulti, e inattesi, per quanto riguardava il plotone dei poeti, tanto che indussero più d’uno alla ritirata o, viceversa, alla difesa personale, al lancio di invettive contro il pubblico. Decisamente amareggiato si mostrò, per esempio, Dario Bellezza, urlando al microfono: “Voi odiate la poesia!”. Ma, decontestualizzata, anche la reazione di Bellezza appare poco più che una risposta debole, e personalmente interessata: il popolo che chiede il microfono per fare poesia, pur riducendola a cialtronata ed esibizionismo, vuole ridefinire, in qualche modo, anche l’immagine della poesia circolante all’epoca in Italia, e confermata da molti dei poeti accorsi.

Memore anche di questi esordi, nel 1980 il festival trasloca, e da Castelporziano si sposta a Piazza di Siena, nei pressi di Villa Borghese. L’atmosfera stessa è cambiata: non c’è più un pubblico moltitudinario e re-attivo e, come osserva acutamente Tondelli, “a quella spettacolarità quotidiana che si alzava il mattino presto, anzi, nemmeno se andava a dormire, si è sostituito un dopocena letterario o, per essere precisi, un dessert culturale a sorpresa”.

La formula-dessert è destinata ad essere riproposta nei decenni a venire in ogni festival e festivalino: basta leggere come, già nell’occasione di Piazza di Siena, il comune di Roma e l’associazione Beat 72, capitanata da Franco Cordelli, già animatrice di Castelporziano, vi abbiano “infilato non solo letture pubbliche di poesia, ma pure incontri di astrofisica, concerti di musica indiana, spettacoli con Benigni, Tognazzi, Villaggio, per approdare infine, il 31 luglio, a ciò cui tutto approda, cioè l’Alighieri Dante: il team Leo e Perla che eseguirà, oilalà, il trentatreesimo canto dell’Inferno.” Togli Leo e Perla e leggi Benigni, Sermonti, Servillo.

Tondelli ritorna, subito dopo, all’abitudine di chiosare – con animo critico, ma anche con indubbie qualità profetiche: “Risulta evidente che non si potrà, durante queste giornate, parlare di ciò che si muove sul piazzale della poesia, fissare percorsi, riciclare scuole, indirizzi e codici postali, ma soltanto raccontare di come oggi, in questo momento, anche la poesia sia investita da un furore carnevalesco e, quindi, anch’essa partecipi, con modi suoi, a un più generale progetto di “spettacolarizzazione del lavoro culturale”.” Il carnevale dei freak e degli indiani è già diventato fiera, luogo di marketing.

Tondelli ascolta tutto, tutti, e si ferma a interloquire con Giuseppe Conte, Mario Baudino, Valentino Zeichen. Ha parole di ammirazione per i “sonori” Adriano Spatola – “Poeta d’avanguardia? Cabarettista? Attore? Lestofante? No. Semplicemente Adriano Spatola.” – e Arrigo Lora-Totino, l’ultimo grande lettore di testi futuristi. Anche Lora-Totino, come Bellezza e altri poeti di Castelporziano, è oggetto di una feroce contestazione, reo com’è di perpetrare l’eredità letteraria futurista, e quindi vittima di una nuova barbara semplificazione: “Il pubblico non gradisce e non capisce e bombarda con bucce d’anguria, e quando l’eco proiettile raggiunge il poeta e si spacca sul suo corpo con il rosso dell’anguria che schizza e le gocce d’acqua che brillano in controluce, è davvero un coup de théâtre. Tutti applaudono e cercano il bis, cosicché sembra che si stia facendo il tiro al piccione e non ascoltando il più grande esperto di poesia fonetica, il miglior declamatore della poesia delle avanguardie storiche.”

Per un attimo Tondelli sembra concordare con Giuseppe Conte e il suo bisogno, certamente un po’ snob, di un pubblico più ristretto e attento, ma anche, inevitabilmente, più addentro al sistema letterario tradizionale: “Dovevate essere a Correggio un anno fa, a sentirlo, una ventina di persone, e lui che s’agitava e rombava e arrancava ogni parola come se fosse una massa fisica, davvero okay (e ci fece ascoltare persino una registrazione radiofonica, l’unica, della voce di Antonin Artaud)..:” Ma poi conclude, con un moto nostalgico, che è moto di riavvicinamento a una collettività più che di rimpianto per il passato: “Va bè, le contestazioni non hanno mai ammazzato nessuno.” Peggio fanno, sembra dire tra le righe Tondelli, che si avvicina alla conclusione, i “soliti freak che cantano, declamano e gesticolano le pagine dei loro diari o, peggio, quelle brevi frasi smozzicate che, per quasi tutto il decennio appena passato, si sono messe addosso il nome di “poesia”.”

Tralasciando il lungo paragrafo sulla gastronomia creativa – altro sintomo della stagione incipiente del Marketing, contraddetto da uno squarcio lirico su “due ragazzi bellissimi e quindicenni” che spacciano sangria in Piazza Farnese, senza preoccuparsi di trarne larghi profitti (“Mo c’avemo già guadagnato!”) – si può arrivare direttamente al paragrafo finale, nel quale si tirano le somme, questa volta da un punto di vista esistenziale e lirico, più che critico, di questa Estate Romana, una delle ultime ad essere stata progettata e finanziata da Roma “Comune democratico”: “E lì appunto, nei cinque o sei luoghi deputati agli spettacoli, tra un cabaret, un esercizio minimal e una performance elettronica ci si trascinava stancamente, discorrendo di tutto ciò che comunemente si dice in un foyer d’avanguardia.” Non manca un ultimo accenno alla comunità disgregata che, non più popolo, è già pubblico: “Ci si rincontra, ma in molti, ahimè, c’è l’occhio stanco e il parlato intrigato: per fortuna il vento romano, annunciando l’autunno, infila tutti sugli autobus. Per fortuna, anche quest’estate è finita.”

Discrasie, si diceva: l’esperienza dell’Estate Romana si conclude nel tempo, ma non nell’immaginario – né in quello personale, di Tondelli, né in quello collettivo, almeno per quanto riguarda, nello specifico, le manifestazioni artistiche sul territorio. O per il “sapore schizoide” che continuano a lasciare in bocca.

È in questo secondo frangente che ricordare l’Estate Romana dal punto di vista di Tondelli e del Weekend Postmoderno significa concentrarsi, come l’autore fa, sulle giornate poetiche di Piazza di Siena, considerate il fulcro di un programma festivaliero ante litteram. E pare giusto tornare a quella descrizione, valutandola nel pieno della sua articolazione, per capire cosa ne è dei festival letterari e poetici di oggi e di domani, quali possano essere le azioni culturali più efficaci sul territorio, per il territorio.

In contrapposizione con il Festival di Castelporziano, del quale Tondelli non ricorda, diversamente da Andermann, Giuseppe Conte e altri, il crollo finale del palco, la manifestazione poetica di Piazza di Siena si presenta non tanto come un successo di poesia, di qualità della poesia, o di pubblico, ma come un vivace momento di transizione tra il furore carnevalesco della spiaggia romana e il dopocena letterario o la riunione accademica, cioè la forma nella quale si concretizzerà il festival romano nel 1981. Il popolo che aveva seguito, ma anche ostacolato, i poeti di Castelporziano c’è ancora, e rispunta nel finale, prendendosi ancora una volta la scena. Il contrasto tra ciò che i “soliti freak” intendono per poesia e le proposte poetiche dei Conte e degli Arrigo Lora-Totino diventa così evidente, illuminando le semplificazioni pre-barbariche dei primi e l’élitarismo non sempre giustificabile dei secondi. Ma il pubblico della poesia, che non è pubblico-e-basta, “pubblico per eventi”, e quindi non coincide per forza di cose con quello analizzato con scetticismo da Berardinelli e Cordelli già nel 19759, c’è ancora, ed è un dato importante. L’appoggio istituzionale è ancora forte, anche se con ricadute schizofreniche, o comunque – se si vuole usare altro stile da quello, personalissimo, di Tondelli – con esiti paradossali, ambigui, contraddittori. La giunta democratica di Roma è disposta a dare panem et circenses alla cittadinanza, ma non si esime dall’utilizzare con malafede questa iniziativa, volta, in origine, a riempire di contenuti e proposte le altrimenti scarne, desolanti giornate estive della Capitale. Atteggiamento pienamente postmoderno, si potrà dire, ma che continua a stridere, in ogni caso, con la condotta postmoderna e, in aggiunta, filistea delle istituzioni di oggi, capaci di de-finanziare un importante festival poetico, graziato da esiti di ricerca notevoli, come l’Absolute [young] Poetry di Monfalcone a favore di progetti culturali meno lungimiranti e meno intensi. Per usare le parole di uno degli organizzatori, Lello Voce, che ha scritto di Politiche culturali nel numero di novembre di alfabeta2:

“In vista di elezioni comunali, basta una serata nella quale in teatro ci siano 200 paganti invece di 400 per rendere quell’evento un peso, a cui preferire piuttosto dieci appuntamenti con autori locali, magari schiettamente mediocri, ma con tanti amici tutti residenti e votanti. D’altra parte, nella prospettiva di un Governo regionale, le cifre che un evento di poesia e musica di ricerca può mettere sul tavolo sono comunque poca cosa, rispetto a quanto può offrire una sarabanda di volti televisivi variamente assortita.”

Tornare alle piccole letture, sparse sul territorio, come auspicavano Giuseppe Conte e, in fondo, anche Tondelli, è giusto, ma non quando queste diventano strumento di potere, e sono usate da parte di istituzioni che si mettono la poesia all’occhiello, ma, in definitiva, non sanno che farsene. Meglio allora le letture improvvisate nei non-luoghi che punteggiano il territorio, o meglio, il non-territorio, anche se sono organizzate da poeti con una militanza diversa, e criticamente minore, rispetto ai Conte e agli Zeichen. Anche se, come direbbe Tondelli, si tratta dei soliti freak. I soliti freak, spesso, vanno felicemente allo sbaraglio.

Un altro punto a loro favore, probabilmente, è questo: negli spettacoli fricchettoni non si uccidono animali. La boutade è presto spiegata: nel corso del Weekend Postmoderno, Tondelli si spende in un lungo commento allo spettacolo Genet a Tangeri, messo in scena dai Magazzini Criminali al Festival del Teatro di Santarcangelo del 1985. Nel corso della pièce, viene sgozzato un cavallo dagli operai del mattatoio di Riccione (abbattimento, per la cronaca, comunque già stabilito in precedenza), scatenando un fiume di polemiche sui giornali. Tondelli scrive un lungo pezzo sul Corriere della Sera per difendere lo spettacolo dei Magazzini Criminali, che, ai suoi occhi, è una performance pienamente riuscita e che anzi rappresenta l’avanguardia teatrale degli anni Ottanta – un’opera, si direbbe, se non si fosse discettato qui di discrasie temporali, “al passo con i tempi”. Visto da un’altra angolazione, Tondelli arriva, nel 1985, a tastare con mano come i meccanismi del marketing culturale privilegino spesso gli aspetti scandalistici e più direttamente, ma anche più morbosamente, polemici di un evento artistico, distorcendone contenuti e prospettive. La scrittura di questo pezzo di Tondelli è contenuta ed asciutta, pienamente “giornalistica”10, ma appare chiara, dopo questa digressione su Castelporziano e Piazza di Siena, la nostalgia dell’autore per eventi nei quali il furore carnevalesco era percepito da tutto, o quasi tutto, il pubblico, il popolo della poesia, come tale.

Per tornare, infine, all’opera di Tondelli, “L’Estate Romana” si rivela un passo importante nell’architettura del Weekend Postmoderno: incluso nella sezione degli Scenari– che avrebbero dovuto comparire anche nel sottotitolo globale dell’opera – è un quadro assai articolato – a dispetto dei “tanti piccoli flash”, che promette in apertura (ma, lo si ricordi, dall’ottica di un “non-ancora-giornalista”) – di un’epoca che si sta chiudendo e che nel contempo apre la strada agli anni Ottanta e alla loro cultura. Il Weekend sarà poi un ampio reportage da e su questo decennio, ma l’impronta che si dà con “L’Estate Romana” è quella di un osservatore che sa prendere una giusta distanza sentimentale e critica (occasionalmente, di critica militante) in quanto è consapevole di ciò che è venuto prima e si è rapidamente dissolto, o, per dirla con Tondelli, “disgregato”. Gli anni Ottanta non si configurano, dunque, soltanto come gli anni del riflusso, a causa dell’eredità di violenza e terrorismo degli anni Settanta – come ci ricorda spesso, e giustamente, Enrico Palandri11 – ma anche il momento storico in cui si afferma una concezione del lavoro culturale molto diversa dalla precedente, che lavora secondo le regole del marketing, secondo la logica della società dello spettacolo e della mediatizzazione degli eventi, perdendo la capacità trasgressiva, dunque – nel migliore dei casi – innovativa, del carnevale indiano che l’ha preceduta e, in modo indiretto e inconsapevole, anticipata. Questo sguardo al presente come al passato – che ha inevitabili ricadute sul futuro, su quello che può essere oggi un festival internazionale di poesia, per esempio, o un evento culturale in genere – pare essere l’inevitabile conseguenza di una scrittura matura, sulla quale è inutile fare una filologia cronologica (“Tondelli è postmoderno, Tondelli è generazionale”) per dare spazio a una compiuta filologia dell’anacronismo. E capire cosa sta succedendo qui, ora, organizzando l’analisi culturale “secondo la struttura significativa del Viaggio di Scoperta archetipo e costante” nuove “testimonianze su spettacoli innegabilmente avvenuti, su una scena o nelle sue vicinanze, nel contesto culturale e sociale del Teatro” – dando vita, in altre parole, a un nuovo romanzo critico.

BIBLIOGRAFIA

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Berardinelli A. e Cortelli C., Il pubblico della poesia, Lerici, Cosenza, 1975.

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Di Fresco S., “Un Weekend Postmoderno di Pier Vittorio Tondelli come romanzo: un’ipotesi critica” (1° Seminario Tondelliano, Correggio, 14 dicembre 2001, reperibile in rete all’indirizzo: http://minerva2.reggionet.it/pvt/allegati/DiFresco.PDF, ultimo accesso effettuato il 08/12/2010).

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Palandri E. e Spadaro A., “Dialogo su Tondelli”, Bollettino ‘900, 2001, n. 1 (reperibile online all’indirizzo: http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2001-i, ultimo accesso effettuato il 08/12/2010.)

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P. V. Tondelli, Un Weekend Postmoderno, Bompiani, Milano, 1998 (1990), pagg. 32-47 e 233-243.

Voce L., “Politiche culturali”, alfabeta2, n. 4, novembre 2010.

“Woodstock dei poeti”, Corriere della Sera, articolo a firma di r.s. (?), 30 luglio 1994 (reperibile in rete: http://archiviostorico.corriere.it/1994/luglio/30/Woodstock_dei_poeti_co_10_9407306437.shtml, ultimo accesso effettuato il 08/12/2010)

NOTE

1 L’edizione utilizzata nel testo è uscita nel 1998, per i Grandi Tascabili della Bompiani, a otto anni dalla prima pubblicazione (1990).

2 P. V. Tondelli, op. cit., 1998, pagg. 36-47.

3 Tondelli inizia a collaborare con Il Resto del Carlino nel febbraio 1980 con l’articolo “Warriors a Correggio”, che precede “L’estate romana” sia cronologicamente – di qualche mese – che nella struttura del Weekend Postmoderno (1998, pagg. 32-36), ma questo scarto temporale è minimo e, con tutta probabilità, non ha ancora indotto l’autore a misurarsi in modo integrale con la scrittura giornalistica – id est, il cosiddetto Manuale di Stile.

4 Cfr. F. Panzeri, “Appunti per un romanzo critico”, appendice a P.V. Tondelli, op. cit., 1998 (1990), pagg. 597-602.

5 A. Arbasino, Grazie delle magnifiche rose, Feltrinelli, Milano, 1965. Utilizzo qui la citazione già impiegata dalla dott.ssa Silvia Di Fresco nella sua comunicazione al Seminario Tondelliano del 14 dicembre 2001, “Un Weekend Postmoderno di Pier Vittorio Tondelli come romanzo: un’ipotesi critica” (reperibile in internet all’indirizzo: http://minerva2.reggionet.it/pvt/allegati/DiFresco.PDF, ultimo accesso effettuato il 08/12/2010).

6 V. nota 3.

7 Il riferimento di Tondelli a Odino e, attraverso questa figura, a una controcultura orientata a destra, e tuttavia mancante di solidi appigli critici e artistici, è giustificato da un paragrafo di poco precedente – paragrafo che, per una miglior comprensione dell’accenno fatto, riporto qui: “ […] restando alla musica celtica, niente scoccia di più della strumentalizzazione che i giovani di destra ne stanno facendo in nome dei logori schemi del superuomo e della virilità e del bardo e, appunto, dell’ “Odino, Odino!!!”, arrivando a coinvolgere, nella sfida alla corruzione del presente, nella guerra all’evoluzione e alla presunta decadenza dei valori (gli uomini non sono più uomini, la musica non è più musica, l’onore non è più onore) lo stesso J.R.R. Tolkien e la sua cosmogonia di elfi, fate, cavalieri, orchetti, come sta succedendo, fra croci celtiche e rune e fasci littori, nei campi Hobbit della “destra alternativa al sistema”.” (1998, 39)

8 Riportiamo la cronaca degli avvenimenti così come sono stati ricordati, tra gli altri, da Renzo Paris in un articolo per Liberazione, apparso in data 11 luglio 2006. L’articolo fu pubblicato in occasione della pubblicazione dell’annuario Poesia 2006 di Castelvecchi a cura di Paolo Febbraro e Giorgio Manacorda, nel quale si dedicava ampio spazio al materiale d’epoca, e anche a qualche riflessione un po’ più recente, sul ‘fenomeno-Castelporziano’.

9 A. Berardinelli e F. Cordelli, Il pubblico della poesia, Lerici, Cosenza, 1975.

10 Nel Weekend Postmoderno (pagg. 236-242) sono riportate, in una forma ampliata e grandemente rimaneggiata rispetto alla pubblicazione avvenuta su una famosa terza pagina del Corriere della Sera, le interviste che Tondelli ebbe con tre componenti del gruppo teatrale dei Magazzini Criminali, ovvero Federico Tiezzi, Marion D’Amburgo e Sandro Lombardi.

11 Cfr. Palandri E. e Spadaro A., “Dialogo su Tondelli”, Bollettino ‘900, 2001, n. 1 (reperibile online all’indirizzo: http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2001-i, ultimo accesso effettuato il 08/12/2010.)

Simone Belfiori | Tra Sessantotto e psichedelia, spazio e mente: la fuga centripeta dei Pink Floyd

Per dirla con Hemingway, non si può fuggir da se stessi vagando di luogo in luogo. L’ossessiva ricerca dell’altro non riflette forse una mancanza personale, una necessità di indagine ? Con la giusta dose di astrazione, questo è il caso dell’epopea floydiana, che grazie allo strumento della psichedelia ha attraversato le contraddizioni proprie di una quest apparentemente proiettata verso l’esterno, ma invero rivolta all’uomo ed alla sua condizione. I Pink Floyd, band onnipresente nell’immaginario del musicista medio prima ancora delle proprie stesse note, hanno contribuito a creare attorno a se un fitto alone “cosmico” e spaziale, in cui la motilità lisergica della mente del primo chitarrista Syd Barrett ha influito non poco. Alone considerato a torto essenziale in tutta la loro carriera, fino ancora al vendutissimo album The Dark Side Of The Moon del 1973. Eppure, in questo stralunato e dissonante viaggio verso orizzonti lontani (ben rappresentato dai brani del primo album “The Piper At The Gates Of Dawn” del 1967), sono già presenti i germi della futura svolta dei musicisti londinesi ; in parallelo con il forzato allontanamento di Barrett, ormai lanciato a folle velocità nel suo acido universo, la loro proverbiale “aurea medietà” di musiche, ora magniloquenti e rilassate, e di testi, ora proiettati verso l’interno, prende il sopravvento.

In questo i Pink Floyd riflettono le contraddizioni degli anni e dell’atmosfera dalla quale anche loro in parte presero le mosse ; nella translucente, psichedelica e borghese Swingin’London della seconda metà degli anni ’60, la musica di questi cinque inglesi riesce ben presto a divincolarsi e sopravvivere alla deflagrazione ; e già con il termine della Summer Of Love del 1967 un rispettabile contratto con la EMI (e la cacciata di Barrett) pone sui binari della normalità quello che pareva essere una versione europea della psichedelia tout-court,colonna sonora del Flower Power d’oltreoceano. Con i dovuti distinguo ; nel contempo riassuntiva e differente, tale musica aveva in effetti poco a che spartire con l’acid rock americano. D’ora in poi si potrà invece parlare di psichedelia soltanto nel senso etimologico del termine. Dal punto di vista della forma, il gruppo si è indubbiamente contraddistinto fin dagli inizi per una spiccata propensione alla dimensione live ; dai celebri light shows fino ai mastodontici e plurimiliardari tour mondiali (culminati con gli esorbitanti numeri per lo spettacolo di “The Division Bell” del 1994), è rintracciabile la linea comune di una carriera del tutto conforme ai dettami consumistici ; scheggia impazzita nata dagli anni della contestazione, i Pink Floyd hanno adeguato i loro schemi al turbinio del music business, con il non trascurabile pregio di non aver mai perso una propria identità. Dagli hippies agli yuppies, come polemicamente qualcuno ha sentenziato ; musicalmente, formalmente, psicologicamente. Eppure erronea e fallace è la lettura del fenomeno floydiano secondo una così ferrea interpretazione ; eccezion fatta per Barrett, i restanti componenti del gruppo non sono mai assurti allo status di “rock-star” ne tantomeno di personaggi ; uomini schivi e riservati, quasi eclissati persino sul palco dal suono etereo della loro musica. Ed a livello di contenuti, innegabile è stata la capacità, per un concept rock, di sondare i mali della società contemporanea occidentale ; talvolta in maniera pur banale, altre sotto una tenue ma geniale luce, i temi considerati sono stati vagliati attraverso gli strumenti dell’ironia, del gioco linguistico, del teatro e soprattutto del metateatro ; nella mastodontica opera di “The Wall” del 1979, la condizione disagiata del musicista-showman si esplicita, autorappresentandosi e descrivendo egregiamente le tappe dell’incomunicabilità dapprima tra uomo e pubblico, da estendersi tra uomo e uomo. L’autismo che si origina è dunque derivato da traumi, meccaniche e pesanti sovrastrutture capaci di inquinare l’autenticità dei contatti e dei legami: ben viva è la descrizione dell’attuale società del “bisogno forzato”, sia esso degli “applausi”, della droga, del denaro, del potere.

Un caso significativo : Testi e musiche di “The Dark Side Of The Moon”

Il già citato “The Dark Side Of The Moon”, disco da 30 milioni di copie, è l’emblema di come il successo planetario di un prodotto non sia di per se inversamente proporzionale al valore qualitativo. Quello che si presenta è invece un calderone senza pari, che sotto l’egida della pazzia fotografa vizi ed affanni dell’uomo “occidentale” alle prese con i ritmi della vita e l’assenza di un equilibrio, con il tempo, con il denaro e con i suoi labili appigli.

Ovviamente ricorrente la metafora immediata con i riferimenti al sole ed alla luna, a scandire un immaginario parallelo con la luce e l’oscurità nella mente dell’uomo (nonché il respiro cosmico, concepito in varie accezioni dalle filosofie orientali), la cui controparte, inevitabilmente presente, è proprio quel “lato oscuro” che altro non è che la fisiologica incertezza che inconsciamente si rimuove, chiudendosi spesso in un’ebete ottimismo ; un discorso, quest’ultimo, che risulta facilmente applicabile all’attitudine mentale dominante ancora ai giorni nostri.

Il brano “Breathe” ( “respira”) è una precisa fotografia della rincorsa quotidiana verso il nulla ; il verbo “to run” ( = correre ) è presente nel brano nonché più volte ripetuto nel disco, con accezioni differenti. Il monito è quello di respirare, fermarsi, riscoprire il legame (“parti, ma non lasciarmi” , “scegli il terreno adatto”) nonostante le irremovibili spinte alle quali la società sottopone (“per quanto in alto voli / tutto ciò che tocchi e che vedi”). Ma il messaggio è decisamente pessimista, in pieno accordo con l’indole di Waters : “corri coniglio, corri, scavati un buco, dimentica il sole / per quanto tu via ed in alto voli “. L’inutilità e la pericolosità della frenesia moderna è incarnata dagli ultimi versi, in quanto “se cavalchi la corrente, tenendoti saldo sull’onda più grossa, vai velocemente verso il sepolcro”.

Il brano seguente non a caso si chiama ancora “On The Run”, intermezzo strumentale psicotico, sorretto da un ripetuto arpeggio del sintetizzatore.

Il concetto del correre è ripreso anche nel brano “Time”, che all’inesorabile scorrere del tempo contrappone un uomo perennemente incapace di coglierlo in relazione al suo valore, sempre a disagio e mai appagato da esso. La “rincorsa” in questo caso è tardiva e mai risolutiva : “corri corri per raggiungere il sole, ma sta tramontando, correndo in tondo per rispuntare ancora dietro di te”. Lo stesso sole, che simboleggia la vita agognata, è rappresentato in movimento, in un circolo vizioso, in quella romantica tensione verso il nulla che oggi –viene da pensare- è inficiata dai venti squilibranti della competizione, non più fisiologica bensì indotta dal pervasivo utilitarismo. I rapporti reali sono stravolti, la percezione della propria osmosi umana e temporale è alterata.

Ed infatti “non sembri mai pago del tempo, fra progetti che finiscono nel nulla”, questa è l’amara constatazione di Waters, che dimostra testualmente di essere la prima vittima di tale meccanismo non avendo a disposizione ulteriori minuti nello stesso brano per continuare il discorso.

L’atmosfera perentoria è temporaneamente stemperata dagli episodi di “Breathe – reprise” e dal bellissimo e commovente strumentale “The Great Gig in the Sky”.

Il caratteristico incedere in 7/4 ci conduce successivamente attraverso la famosa “Money”, invettiva contro il denaro, definito “radice di ogni male contemporaneo” ; interessante è la successiva presenza dell’avversativa introdotta da “But…”;“ma se domandi un aumento, non sorprenderti se non ti concederanno nulla”, questo è il suono della frase, quasi a significare che il male del denaro è insito inevitabilmente nel suo autonomo potere di richiamo e di mobilitazione stessa dell’uomo, e non ovviamente nel suo configurarsi come oggetto, al pari di altri. In ogni caso, in generale il brano descrive la contraddizione quotidiana generata nell’uomo dallo “sterco del demonio”.

Infine, utile è citare i due brani conclusivi, ovvero “Brain Damage” ed “Eclipse”.

Il primo ci descrive la pazzia come condizione fisiologica di chiunque si accorga ( o forse ammetta ) di aver perso determinate certezze (“se la diga si squarcia prima del previsto / se la testa ti scoppia in oscure profezie” ) ; il “lato oscuro della luna” è il luogo in cui inevitabilmente ci si ritrova con chi abbia “un pazzo nella propria testa”, e non già con chi sia pazzo egli stesso. Questa sottile intuizione di Waters ben si esprime nella frase ”c’è qualcuno nella mia mente, ma non sono io”. E’ dunque il destino stesso ad imporre di convivere con il proprio fantomatico “dark side”.

A riprova di questo, “Eclipse” ancora una volta ribadisce che “ogni cosa sotto il sole è in sintonia, ma il sole è eclissato dalla luna…”.

Lungi da un discorso di spazialità concreta o fantascientifica, la cinesi dei Pink Floyd è evidentemente interna. Volendo estremizzare il discorso, l’intera opera discografica del gruppo elude il concetto occidentale di “dissociazione”, rintracciabile da Platone in poi. Spazio interiore e cosmico sono due facce della stessa medaglia. Come il sole e la luna, o la luna medesima nei suoi due lati. Spunti interessanti a proposito derivano dall’analisi storica del Buddismo coreano di Chont’ae (1055-1101).

Non raro è d’altra parte rilevare l’interesse per il buddismo in risposta alla voglia di fuga da un tipo di società alienante e tecnocratico ; già Jack Kerouac, in The Dharma Bums (I vagabondi del Dharma, 1958), evidenziava seppur in modo personale la sua adesione alla filosofia Zen. Il discrimine tra ricerca spirituale e decadenza alcolica in questo caso si è però fatto molto labile ; la compentrazione tra il fenomeno beat, la psichedelia (e conseguentemente il clima lisergico) è ampiamente comprovata, ma c’è da dire che al contrario di tanti “eroi” di quegli anni, i Pink Floyd non ebbero il coraggio di premere il pedale dell’accelleratore fino in fondo ed immolarsi tali, imboccando per tempo il bivio della defluenza. O forse fu semplicemente un’intuizione,una scelta,guidata da una non totale appartenenza che consentì una “fuga centripeta” piuttosto che l’emorragia verso i paradisi artificiali. Quella “energia allo stato puro” così vivamente espressa dal protagonista di “On The Road” (Jack Kerouac, 1957), non era forse priva di meta ? Non si doveva, per detta dello stesso Kerouac, “arrivare in qualche punto, trovare qualcosa” ? Si tratta del medesimo “saldo centro interiore” mancante, che indicava Julius Evola nella sua critica alla figura del beatster. Inizialmente attratto dalla carica anarchica ed antisociale di una tale figura proto-rivoluzionaria, egli ebbe modo di appurarne per tempo l’inconsistenza, nonché il rischio dello smarrimento nelle illusioni neo-borghesi. Kerouac, già a partire dalla pubblicazione di Big Sur (1967) è in grado di accorgersi della contraddizione, con il sopraggiunto successo paradossalmente alimentato dall’underground protestatario.

Forse i Pink Floyd erano diversi, puntavano fin dagli inizi su altri lidi, con strumenti affini ; la direzione è invertita ; la ricerca collassa su se stessa, attorno ad un punto ancora fuggevole ma in perenne via di definizione.

E la nuova percezione del viaggio non ha più a che fare in maniera pedissequa con il trip psichedelico, già dal secondo disco “A Saucerful Of Secrets” del 1968. Se lo stile disturbato delle composizioni Barrettiane trovava un parallelo e similare riscontro nelle forme esplosive e sperimentali della prima prosa della Beat Generation, con i suoi “stacchi” e i suoi “frammenti”, la linearità ora plumbea, ora solare del tempo a “quattro quarti lento” dei nuovi Floyd, ci guida attraverso dei testi che a tutto mirano, fuorchè ad allontanarsi da un indefinibile fulcro. Insomma, una fuga centripeta.

Cenni Biografici e Discografia

Roger Waters (basso), Nick Mason (batteria), Richard Wright (tastiere), Syd Barrett (chitarra) furono i musicisti che dopo varie formazioni e vicissitudini diedero vita alla prima line-up, a Londra e dintorni nel 1965.

Nel clima allucinato delle esibizioni negli importanti locali del Marquee e dell’Ufo, il gruppo è guidato dalla mente del chitarrista Syd Barrett, autore principale di tutto il materiale. Personaggio con velleità da rockstar, geniale, bizzarro e volubile , Barrett è perennemente immerso nell’universo delle droghe, in un crescente decadenza psico-fisica che lo porterà ad un’implosione autistica, causa del suo allontamento dal gruppo avvenuto già nel 1968. Il suo spettro però continuerà ad aleggiare per diverso tempo. In ogni caso, il primo singolo è del 1967 (“Arnold Layne/Candy And Current”), che frutta un prezioso contratto con la EMI proprio nel momento della deflagrazione della Swingin London nella medesima estate. L’album di esordio è “The Piper At The Gates Of Dawn” ; testi sognanti ed ermetici, ricchi di assonanze ed immagini testuali si sposano a musiche semplici ma frammentate, sobbalzanti,tra elementi di disturbo e di apertura. Del 1968 è l’album “A Saucerful Of Secrets” e la dipartita di Barrett, contemporaneamente all’ingresso del chitarrista blues-oriented David Gilmour, dal suono caldo e pieno, convintamente melodico. Siamo dunque oramai nella seconda fase della parabola musicale floydiana, in cui subentra un rock che qualcuno ha non ha torto definito di “aurea medietà”, sempre pacato, deciso ma mai aggressivo, oscillante senza pregiudizi tra l’oscuro ed il chiaro. Con le fisiologiche variazioni e sperimentazioni, questa sarà la direzione intrapresa fino all’epocale album “The Wall” del 1979. In precedenza, nella discografia della band londinese possono essere annoverati il doppio Ummagumma del 1969, 3 colonne sonore (“More”, dall’omonimo film di Barbet Schroeder del 1969 ; Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni del 1970 ; “Obscured By Clouds” da La Vallée di Barbet Schroeder del 1972), i concepts –con la ricerca di suites e accorgimenti sperimentali come cori polifonici- “Atom Heart Mother” (1970), “Meddle” (1971), il vendutissimo “The Dark Side Of The Moon” (1973), “Animals” (1977), dai testi intrisi di irriverenza punk, ed infine il disco “Wish You Were Here” del 1975, idealmente rivolto al tema dell’abbandono ed all’ormai disadattato Syd Barrett.

La musica dei Pink Floyd abbandonerà (ma non del tutto) in seguito la forma strettamente rock per attingere ai più svariati stili in adesione agli obiettivi musicali di ogni singolo album.

Dopo “The Wall” (1979) – e il relativo film del 1982 diretto da Alan Parker – , spetterà al concept sulla guerra “The Final Cut” (1983) chiudere un lungo periodo di successi e creatività.

Il bassista Roger Waters, principale immaginifico dei Pink Floyd dalla dipartita di Barrett fino a quel momento, lascerà la band per poi tornare ad imbattersi nel suo nome nel 1986, in occasione della disputa legale con gli ex-compagni per l’utilizzo del medesimo.

Questi ultimi avranno la meglio e registreranno l’album “A Momentary Lapse Of Reason” nel 1987, con annesso tour mondiale. Del 1988 è il doppio album “Delicate Sound Of Thunder”.

A sette anni di distanza dall’ultimo album, nel 1994 esce “The Division Bell” , che recupera tutti gli elementi più tipici del Floyd-sound ; ancora una volta, il disco è seguito da un enorme tour mondiale che culmina con la pubblicazione del mastodontico doppio live “Pulse” del 1995, assieme ad una videocassetta.

Del 2000 è il live “Is There Anybody Out There ?”, testimonianza del tour di “The Wall” e di una band in splendida forma.

Del 2001 è l’antologia “Echoes”.

Alain de Benoist | Jean Baudrillard

Poco prima della sua morte, per riassumere il suo itinerario, egli diceva di essere stato «patafisico a 20 anni, situazionista a 30, utopista a 40, trasversale a 50, virale e metaleptique a 60». Nella sua opera, si parla di simulacri, di virus, di strategie fatali, di strani attrattori, di seduzione. Tanto per dire che la sociologia di Jean Baudrillard non è una sociologia come le altre.

Nato a Reims nel 1929, in una famiglia originaria delle Ardenne (ma suo padre era un gendarme), è segnalato nella scuola primaria dai suoi istitutori e integra il liceo beneficiando di una borsa di studio. Un professore di filosofia lo inizia alla «patafisica» d’Alfred Jarry, ciò gli servirà più tardi per «[rompere] avec tout un faux sérieux philosophique». Nel 1984, Jean Baudrillard si ritrova in hypokhagne (lettere superiori) al liceo Henry IV a Parigi, ma volta presto le spalle al concorso di ingresso alla Normale superiore per stabilirsi come operaio agricolo, e poi come muratore, nella regione di Arles. Tornato nella capitale, termina i suoi studi alla Sorbonne, supera un concorso statale per l’insegnamento del tedesco e diventa professore di liceo. Per qualche tempo lettore all’università di Tubingen, il giovane germanista traduce Peter Weiss, Bertolt Brecht, Karl Marx, ma anche dei poemi di Hölderlin, oggi che scrivo ancora inediti.
Tuttavia interrompe presto con l’insegnamento secondario e intraprende una tesi di dottorato sotto la direzione di Henry Lefebvre; nello stesso tempo segue i corsi di Roland Barthes all’Ecole pratique des hautes études. Lefebvre, di recente espulso dal partito comunista, è celebre all’epoca per le sue teorie della «vie quotidienne». Baudrillard si avvicina quindi a Guy Debord e ai situazionisti. Si interessa inoltre alla «rivoluzione culturale»: nel 1962 fonda con Felix Guattari un’effimera associazione popolare franco-cinese.

La sua tesi sul «sistema degli oggetti», che gli vale nel 1967 le felicitazioni di una giuria composta da Lefebvre, Roland Barthes e Pierre Bordieu, sarà pubblicata l’anno successivo per i tipi di Gallimard. Inizia a insegnare sociologia all’Université de Nanterre, nel dipartimento di Henry Lefebvre, e parallelamente partecipa alla creazione della rivista Utopie, con Hubert Tonka e Isabelle Auricoste, e il gruppo Aérolande. Con Jacques Donzelot partecipa agli avvenimenti del Maggio ’68. «Dalla trascendenza della storia discendevamo in una specie di immanenza della vita quotidiana» dirà più tardi. È per lui un periodo difficile, dove conosce la povertà.

In seguito fonderà con Paul Virilio la rivista Traverser, e continuerà a insegnare a Nanterre fino al 1986, poi a Parigi IX Dauphine, dove sarà Direttore scientifico dell’Institute de recherche et d’information socio-economique (Iris) fino al 1990.

I suoi primi libri, Le système des objets (1968) e La société de consommation (1970) sono dei saggi di sociologia critica, impregnati ancora di una critica neomarxista della società. Baudrillard, che si appassiona per la semiologia (la scienza dei segni), combina alcune idee di Henry Lefevbre e di Roland Barthes, ma anche di Veblen e di Herbert Marcuse, con le acquisizioni dello strutturalismo e della psicanalisi lacaniana. Si impegna a correggere Marx mostrando come il capitalismo consumistico differisca profondamente dal capitalismo del XIX° secolo, nel senso che nasconde delle nuove forme di alienazione: non più alienazione materiale del lavoro, ma alienazione mentale per il mercato.

Quello che interessa Baudrillard è il modo in cui gli oggetti sono «vissuti», come a dire il modo in cui il sistema dei consumi ordina le relazioni sociali. In termini più arbitrari: «Les objets sont des catégories d’objets qui induisent des catégories de personnes». Consumare è in partenza manipolare dei segni e porre se stessi in rapporto a questi segni. Non è quindi tanto l’oggetto che noi consumiamo quanto il sistema stesso degli oggetti. («On ne consomme jamais l’objet en soi, on manipule toujours les objets comme ce qui vous distingue»). Nella società dei consumi, la scelta non dipende dalla libertà, ma dall’integrazione alle norme della società, e quindi dalla costrizione. La pubblicità, che crea l’illusione di indirizzarsi a ciascuno di noi, riproduce la standardizzazione dell’oggetto, dal momento che tutti finiscono per acquistare lo stesso prodotto del vicino di casa. Il sistema degli oggetti, anche definito come omogeneizzante, finisce per reificare il consumatore, che si trasforma lui stesso in oggetto.

Baudrillard analizza quindi la società dei consumi come un fenomeno globale, come un sistema in cui tutte le relazioni sociali sono determinate dalla circolazione delle merci e dal fatto che tutto ciò che è prodotto deve essere consumato. La società dei consumi è lo «scambio generalizzato». Il consumo, lontano dall’essere una semplice pratica materiale, «è un’attività di manipolazione sistematica dei segni», questo significa che «per diventare un oggetto di consumo, è necessario che l’oggetto diventi segno.» Questo spiega anche il consumo senza limiti: andando ben al di là dei bisogni, il consumo aspira a sempre più segni. «C’est finalement parce que la consommation se fonde sur un manque qu’elle est irrépressible».

Nel volume Pour une critique de l’économie politique du signe (1972) Baudrillard constata che Adam Smith e Karl Marx, come le rispettive discipline liberali e marxiste, si sono limitati a distinguere tra il valore d’uso di un oggetto (il suo valore funzionale e «naturale») e il suo valore di scambio (il suo valore economico e di mercato). Egli aggiunge il valore simbolico dell’oggetto, che è un valore acquisito in relazione a un altro soggetto, e il suo valore di segno in rapporto agli oggetti. Una bella penna, per esempio, può servire per scrivere (valore d’uso), essere offerta in regalo (valore simbolico) o conferire uno status sociale (valore strutturale in rapporto al sistema degli oggetti).

L’opera gli vale un riconoscimento straordinario e va a fare di lui uno degli intellettuali francesi più letti e commentati all’estero, in particolare negli Stati Uniti, dove Sylvère Lotringer, una donna francese divenuta professoressa all’Università Columbia, si dimena per farlo conoscere. Baudrillard inizia quindi a viaggiare un po’ dappertutto nel mondo, e una dozzina di libri gli saranno presto consacrati, mentre in Francia la sua insolente ironia vis-à-vis des académismes e il suo temperamento di inclassificabile gli varranno per molto tempo la sorda ostilità di tanti.

Le miroir de la production, nel 1973, segna la sua rottura definitiva con il marxismo. Baudrillard afferma che il marxismo non è che uno specchio della società borghese che, come i liberali, sistema la produzione al centro della vita sociale e non può, quindi, fornire la base di una critica radicale del sistema delle merci. «Il marxismo non è che l’orizzonte disincantato del capitale».

Con L’échange symbolique et la mort (1976), Baudrillard esce completamente dal dominio dell’economia politica. Constatando che le società dominate dai soli valori mercantili, basate sullo scambio dei segni e dei beni, sono incapaci di rispondere a l’esigenza simbolica, egli abbandona la logica semiotica a vantaggio di un sistema simbolico, continuando con ciò i lavori di Marcel Mauss e Georges Bataille.

Il termine stesso di scambio simbolico deriva da ciò che Bataille chiamava l’economia generale, dove la spesa voluttuaria e la distruzione sacrificale prendono il posto delle nozioni di produzione e di utilità. Baudrillard predica quindi una «critica aristocratica» del capitalismo, che prende in prestito anche da Nietzsche, e considera come esempio le società «primitive» tradizionali dove regnava, non lo scambio mercantile, ma il sistema del dono e del controdono molto ben descritto da Marcel Mauss, basato sullo scambio simbolico definito dalla tripla obbligazione di donare, ricevere e rendere. È dentro questo libro che Budrillard sostiene per la prima volta che le società occidentali hanno subìto una «precessione del simulacro», nel senso che queste società sono passate successivamente dall’era dell’originale all’era della copia – pensiamo al celebre testo di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica –, poi a quella di un «terzo ordine di simulacro», dove la copia rimpiazza l’originale e finisce per essere più «reale» dell’originale. Distaccata da tutte le referenze con l’originale la copia diventa infatti simulacro puro, nella maniera in cui in un racconto di Borges, la carta sostituisce il territorio. E siccome questo simulacro non fa che generare altri simulacri, la società tutta intera diviene essa stessa un campo di simulacri. Nell’opera di Baudrillard questo è un punto di svolta fondamentale.

Negli anni ottanta Baudrillard riflette sulle tecniche di comunicazione e sulla natura delle relazioni sociali che queste determinano. La celebre formula di Marshall McLuhan «Il medium è il messaggio» gli serve da filo conduttore: la forma dei media conta più che il loro contenuto. Questo è ciò che fa il loro potere di seduzione.

Contrariamente a Michel Foucault che si interessa prima di tutto alla genealogia delle forme del potere, Baudrillard (che nel 1977 pubblica Oublier Foucault) vede nell’idea di seduzione, e dunque di simulazione, una nozione che una volta ampliata, aiuta a comprendere la società attuale: «La seduzione rappresenta la matrice dell’universo simbolico, mentre il potere non rappresenta che la matrice dell’universo reale.» Egli prende ugualmente le distanze nei confronti della «micropolitica del desiderio» di Gilles Deleuze e dell’«economia libidinale» di Jean-François Lyotard. La seduzione, tiene a sottolineare, è tutt’altra cosa che il desiderio (De la séduction, 1979).

A partire da questo periodo Baudrillard mostra come la modernità, fondata sulla nozione di produzione, abbia ceduto il passo alla postmodernità, dove regna la simulazione, termine per il quale bisogna intendere le mode di rappresentazione culturale che «simulano» la realtà: la televisione, il cyberspazio, la realtà virtuale, gli effetti speciali, i videogiochi, gli schermi interattivi. Oggi, dice Baudrillard, siamo entrati in un’era completamente nuova, dove la riproduzione sociale (il trattamento dell’informazione, la comunicazione, le industrie «cognitive» ecc.) ha rimpiazzato la produzione come mezzo principale di organizzazione della società, e dove le identità si costruiscono esse stesse per l’appropriazione di immagini, di modelli e di codici dominanti.

Nel mondo attuale, afferma Baudrillard, non soltanto tutta la trascendenza si è dissolta, ma la definizione stessa del reale è diventata problematica. Testimone di ciò è l’incessante proliferazione di rappresentazioni virtuali del mondo. La virtualità tende all’illusione perfetta, ed è in questo che essa si apparenta ad una copia che non rimanda più all’originale. Baudrillard lo definisce uno «sterminio del reale a causa del suo doppio». Pertanto, è il principio di realtà che sparisce, perché la realtà non è nient’altro che un principio. Liberata dal suo principio, la realtà implode in maniera esponenziale, fino a quando non si mette in piazza un mondo dove regna la sola virtualità. In altri termini: il vero è cancellato o rimpiazzato dai segni della sua esistenza. Siamo al di là dell’illusione (o della «falsa coscienza»), perché l’illusione si definisce ancora in rapporto ad una realtà che è scomparsa.

Ormai Baudrillard non esita a proclamare che «il reale non esiste più». Ed è questa «scomparsa della realtà», presentata come un «crimine perfetto» e studiata come tale nel libro che porta lo stesso titolo (Crime parfait, 1995), che va a nutrire l’essenziale della sua riflessione. Il reale evapora sotto i nostri occhi. Com’è possibile?

Per i situazionisti, la società dello spettacolo si definiva prima di tutto come alienazione generalizzata. Baudrillard assicura che questo stadio è superato, perché non c’è più distinzione tra lo «spettacolo» e lo spettatore. Scomparsa dello spettacolo, dunque scomparsa della scena – a vantaggio dell’o-sceno. Il passaggio dalla scena all’o-sceno è il passaggio dalla visione banale della fatalità alla visione fatale della banalità, dalla conoscenza all’informazione, dall’isteria alla schizofrenia, dalla finitezza alla metastasi. Questo è lo stadio dove tutti comunicano nell’«estasi della comunicazione.» «Non c’è più la scena della merce: non c’è più altro che la forma o-scena e vuota. E la pubblicità è la dimostrazione di questa forma satura e vuota», scrive all’interno di Simulacres et simulation (1981).

Visto che la realtà non sfocia più in niente che la superi, non le resta che moltiplicarsi, clonarsi, riprodursi indefinitamente senza più rimandare a nulla. È quindi privata di fine, nei due sensi del termine. Quando un segno non ha più uno scambio con la realtà che lo manifesta, si ipertrofizza, si enfatizza, si moltiplica da solo in metastasi fino a significare tutto e niente. Tutto è quindi colpito dallo stesso principio di incertezza: l’informazione, il lavoro, la verità, lo status sociale, il linguaggio, la memoria, l’opera d’arte, ecc., interdicono l’esercizio razionale e tradizionale del pensiero. Il reale è rimpiazzato da dei simulacri che non smettono di auto-generarsi e auto-riprodursi. Non è più la realtà che supera la finzione, ma la finzione che supera il reale!

Baudrillard si appropria di certe parole per dar loro una portata nuova. Il virus gli sembra un termine emblematico che rimanda così bene sia ai computer che alle epidemie, alle mode e alle reti: viviamo in un’epoca «virale», in cui l’AIDS e la «mucca pazza», gli «hackers» informatici, il terrorismo globale e le «autostrade dell’informazione» sono altrettanti esempi. Dopo il valore simbolico e il valore-segno, Jean Baudrillard, ne La trasparance du mal (1990), afferma che il valore è entrato nello stadio «frattale» o «virale»: esso irradia in tutte le direzioni senza fare riferimento a nessuno. Non parliamo di valore, quindi, ma di epidemia del segno. Tutto assume così una forma virale e epidemica: «Le reti, internet, questa è la metastasi illimitata!»

Mettendo fine alle opposizione regolate dal bene e dal male, dal vero e dal falso, dal significato e dal significante, la postmodernità si caratterizza dunque, non soltanto per la ben nota «scomparsa dei riferimenti», ma per l’avvento di un «immenso processo di distruzione del senso». La tesi di Baudrillard è che, nelle attuali società occidentali, la tecnologia dell’informazione abbia portato all’emersione, non del «villaggio globale» di cui parlava Marshall McLuhan, ma di un mondo dove il senso è cancellato, dove il «reale» è ridotto a solo segno autoreferenziale della sua esistenza, mentre la società diviene essa stessa una struttura «opaca». La postmodernità è il tempo dell’implosione.

Implosione del senso nei media. «Siamo diventati un universo dove c’è sempre più informazione, e sempre meno senso». I media sono diventati una «gigantesca forza di neutralizzazione, d’annullamento del senso». «L’informazione, contrariamente a quello che crediamo, è una sorta di buco nero, è una forma di assorbimento dell’evento.»

Implosione del sociale nelle masse. Le società occidentali sono prima passate dalla casta alla classe, poi dalla classe alla massa. Oggi le masse non sono alienate, ma opache: ricercando lo spettacolo più che il senso, esse si sono trasformate in «maggioranze silenziose» che assorbono l’energia sociale senza rifletterla o restituirla, che inghiottono tutti i segni e li fanno sparire dentro un «buco nero».

L’uomo diventa egli stesso uno «schermo puro», che assorbe tutto quello che distillano le reti. La macchina, un tempo, alienava l’uomo. Con lo schermo interattivo, l’uomo non è più alienato, ma diventa parte di una rete integrata. «Siamo dentro lo schermo mondiale. Il nostro presente si confonde con il flusso di immagini e di segni, il nostro spirito si dissolve all’interno della surinformazione e nell’accumulazione di un’attualità permanente che digerisce il presente stesso.» L’uomo virtuale è un «handicappato-motore, e senza dubbio anche cerebrale.» «Lo schermo interattivo – spiega Baudrillard – trasforma il processo di comunicazione, di relazione dall’uno all’altro, in un processo di commutazione, di reversibilità dallo stesso allo stesso (du même au même). Il segreto dell’Interfaccia è che l’Altro è virtualmente lo Stesso […] Siamo passati dall’inferno degli altri all’estasi del medesimo, dal purgatorio dell’alterità al paradiso artificiale dell’identità.» «L’image de l’homme assis et contemplant, un jour de grève, son écran de télévision vide, vaudra un jour comme une des plus belles images de l’anthropologie du XXe siècle»!

Sulla scia di Jean-François Lyotard e la fine dei «grandi racconti» che avevano sostenuto la modernità, Baudrillard assicura che le ideologie, nell’epoca postmoderna, sono solo dei sistemi di segni, quindi dei simulacri. Le ideologie non hanno più corso perché siamo già «passati al di là». La credenza nel progresso, ereditata dai Lumi, si è ammutolita in semplice «psicologia umanitaria», i diritti dell’uomo sono il «grado zero dell’ideologia».

Questo è quello che non hanno compreso i partiti politici che, dichiara Baudrillard, sono «in stato di sopravvivenza artificiale»: «Loro non vivono più che di segni della loro esistenza e tentano di far perdurare una società zoppa, che non sa più dove va né su cosa cammina». Ne La gauche divine (1985), Jean Baudrillard si prende gioco in particolar modo dei socialisti, diventati dei «confessionali, che non hanno da offrire sulla scena che il patetico sentimentalismo della buona fede e del fallimento», e dei comunisti, che hanno abbandonato tutte le prospettive rivoluzionarie per difendere un moralismo radicalizzato. La sinistra si è ridotta a gestire l’elaborazione del lutto dei suoi ideali. L’arrivo al potere del PS non fu che il parto di un enfant caché che il capitale avrebbe fatto alle spalle della società francese.»

Il potere, aggiunge Baudrillard ne A l’ombre des majorités silencieuses, «è là solamente per mascherare il fatto che non esiste più». Quanto allo Stato, passando alla sua forma «estatica», è divenuto transpolitico come altri diventano transessuali!

La storia, infine, ha smesso di essere una successione continua di eventi localizzabili all’interno di una prospettiva lineare. Essa non è più «spinta da uno sviluppo, ma da una surcrescita (excroissance) completamente indeterminata e incontrollabile.» Ci sono sempre degli eventi, o piuttosto degli «enjeux événementiels», ma questi eventi non fanno più una storia. In questo senso, siamo ben bene usciti dalla storia, non nel senso della «fine della storia» imprudentemente annunciata da Francis Fukuyama, ma nel senso della coerenza globale. Siamo passati dal tempo lineare al tempo caotico. Marx aveva inventato le «spazzature della storia.» Oggi, dice Baudrillard, è la storia stessa che è diventata spazzatura.

La simulazione generalizzata ha ucciso il reale, e l’ha rimpiazzato da una iperrealtà. Baudrillard vuol dire con questo, non soltanto che il simulacro non è inferiore a ciò che simula, ma che ne rappresenta al contrario la forma esacerbata o parossistica, una forma più reale del reale. La replica della grotta di Lascaux, visitata dai turisti, è già diventata più reale dell’originale. Le centre Beaubourg, definito da Baudrillard un «operateur circulaire parfait», mette in scena l’«iperrealtà della cultura», nel modo in cui l’ipermercato mette in scena l’«iperrealtà della merce», o i grandi media interattivi l’«iperrealtà della comunicazione». Ne Les stratégies fatales (1983), Baudrillard dà altri esempi di questa iperrealtà, che rende la moda più bella della bellezza, la pornografia più sessuale del sesso, il terrorismo più violento della violenza, la seduzione più artificiale dell’artificio, l’osceno più visibile del visibile.

Nel 1986, una tournée oltre-Atlantico, nel cuore dell’iperrealtà, gli ispira un ottimo saggio  intitolato Amerique. Constatando come negli Stati Uniti il permissivismo vada di pari passo con un ipermoralismo sociale che fa di quella voce o attitudine dissidente una patologia da sradicare, Baudrillard individua nello jogging una forma di suicidio, dice che in America nessuno guarda la televisione perché è lo schermo stesso che guarda i telespettatori, e afferma che la velocità «crea degli oggetti puri» perché è «la forma estatica del movimento». L’America è per lui allo stesso tempo il modello della modernità, l’ultima delle società primitive e l’«utopia compiuta».

Durante gli anni ’90, in una serie di piccole opere incisive, alle quali si aggiungono i cinque volumi dei suoi Cool Memories, raccolta di pensieri folgoranti intramezzati d’aforismi spesso melancolici, Jean Baudrillard dimostra sistematicamente la sua teoria raffrontandola con grandi e piccoli avvenimenti mediatici. Lo fa alla sua maniera, caustica, provocatrice e giubilare, improntata di un’ironia sferzante e di un’allegria sarcastica, espressa da un non-conformismo à toute épreuve e non disdegnando mai di provocare il pensiero dominante.

Rapportata agli avvenimenti, la sua griglia di lettura implica sempre un passo di lato, uno spostamento di prospettiva, alla ricerca di un paradosso illuminante. È questo scarto che gli permette di andare sempre all’essenziale, senza fermarsi ai giudizi di valore, di mostrare come l’evento rinvii sempre a un’altra cosa rispetto a esso. Si tratta, dice Baudrillard, di «giungere al termine di un processo per anticipazione, per vedere cosa succede al di là.»

Nel 1991 pubblica La guerre du Golfe n’a pas eu lieu (Galilée), il cui titolo altisonante suscita delle buone critiche. Egli spiega che la guerra implica un principio di sacrificio incompatibile con la ricerca di una guerra a «zero morte» nel campo degli assalitori, così come il riconoscimento di un nemico non riducibile al ruolo di «canaglia». Guerra chirurgica e «asessuata», la prima guerra del Golfo non ha «mai avuto luogo», nel senso che è stata una questione più di spettacolo che di combattimenti.

Nel novembre 2001, il suo testo L’esprit du terrorisme, apparso su Le Monde, provoca ancora dei sommovimenti nell’intellighenzia parigina. Se la prima guerra del Golfo è stata per lui un non-evento, gli attentati dell’11 settembre gli appaiono al contrario come l’evento-assoluto – ma anche come un «oscuro oggetto del desiderio» che ha «radicalizzato il rapporto dell’immagine con la realtà».

Baudrillard scandalizza quando afferma che il neo-terrorismo globale, che «si nutre di quello che vuole distruggere», è «l’atto che restituisce una singolarità irriducibile al cuore di un sistema di scambio generalizzato». «La tattica del terrorista, scrive Baudrillard, è di provocare un eccesso di realtà e di far crollare il sistema sotto questo eccesso di realtà». Aggiungiamo qui di seguito qualche appunto tipicamente baudrillardiano: «Quando le due torri si sono accasciate, si è avuta l’impressione che rispondessero al suicidio degli aerei-sucidi con il proprio sucidio.» O ancora: «Lo spettacolo del terrorismo impone il terrorismo dello spettacolo.»

Le critiche che gli valgono questo articolo (al quale hanno fatto seguito diversi saggi sullo stesso tema) testimoniano di una incomprensione del suo metodo. Quello che intende dire Baudrillard è che l’Occidente può fare la guerra al terrorismo, ma non ha risposte simboliche da opporgli. Al desiderio di morte dei terroristi, l’Occidente non può rispondere che per la messa in scena del proprio desiderio di morte.

L’Occidente si pone come l’impero del Bene, ciò gli impedisce di vedere che nella vita degli uomini niente è univoco o unidirezionale, che tutto è ambivalente. Tutto ciò che si attualizza potenzia il suo contrario, la sua «partie maudite» (Georges Bataille). «A un certo punto, scrive Baudrillard, questa parte di ambivalenza prende il sopravvento, intanto che l’altra parte si decompone a causa di se stessa. È quanto accaduto al comunismo, che ha secreto la propria ambivalenza e, con la caduta del Muro di Berlino, è arrivato alla fine della sua decomposizione.» In altri termini, più cerchiamo di rimuovere il simbolico, più questo ha la tendenza a tornare. La potenza simbolica è in effetti «sempre superiore a quella delle armi e del danaro». Una società che, convinta della propria superiorità, vuole instaurare dappertutto l’impero del Medesimo (du Même) e rifiuta la sua «parte maudite» crea le condizioni della propria scomparsa. «Celui qui vit par le Même périra par le Même» (Ecran total, 1997).

Come Philippe Muray, Baudrillard ha sempre pensato le plus grand mal del discorso sul Bene. «Crediamo, in maniera superficiale, che il progresso del Bene, la sua forza crescente in tutti i domínî, corrisponda a una sconfitta del Male. Nessuno sembra aver compreso che il Bene e il Male crescono in potenza allo stesso tempo, e secondo lo stesso movimento […] Il Bene non riduce il Male, e viceversa: essi sono irriducibili l’uno all’altro e la loro relazione è inestricabile […] Il male assoluto nasce dall’eccesso di Bene, da una proliferazione senza freni del Bene, dallo sviluppo tecnologico, da un progresso infinito, da una morale totalitaria, da una volontà radicale e senza opposizione di fare del bene. Questo Bene, quindi, si risolve nel suo contrario, il Male assoluto.» Il Male, possiamo dire, risulta da un’irresistibile pulsione di rivincita sull’eccesso di Bene.

Più in generale, Baudrillard pensa che, «da un secolo a questa parte, l’Occidente ha lavorato alla degradazione, eliminazione, abolizione dei propri valori», ritrovandosi a causa di ciò al grado zero di potenza simbolica – ed è questo grado zero che vuole imporre al resto del mondo. Convinto d’essere portatore dei soli valori universali concepibili, l’Occidente vuole estenderli a tutto il pianeta, rigettando come perverse o arcaiche tutte le singolarità che vi si oppongono, «ivi compresa questa forma di singolarità che è la morte stessa.» L’Occidente vuole in fin dei conti negoziare l’alterità e si infuria di non poterlo fare.

«La sola maniera di resistere al globale, è la singolarità», diceva Baudrillard nel 2002. «Quello che può fare scacco al sistema, non sono delle alternative positive, sono delle singolarità. Ora, le singolarità non sono né buone né cattive. Esse non sono un’alternativa, appartengono a un altro ordine […] Queste singolarità possono essere il meglio o il peggio. Non possiamo quindi federarle in un’azione storica d’insieme. Le singolarità fanno scacco a tutto il pensiero unico dominante, ma non sono un contro-pensiero unico – esse inventano il loro gioco e le sue regole». Il terrorismo rappresenta incontestabilmente una di queste singolarità, nel versante dell’estrema violenza. Baudrillard non ne fa un’apologia. Chiede soltanto che si prenda coscienza della sua natura. Il terrorismo è una risposta simbolica parossistica all’universalità astratta.

Contestando le tesi di Samuel Huntington a proposito dello scontro tra Islam e Occidente, Badrillard scrive ancora: «Non si tratta di uno choc di civiltà, ma di un confronto, quasi antropologico, tra una cultura universale indifferenziata e tutto quello che, a prescindere dal dominio in cui si manifesta, custodisce qualcosa dall’alterità irriducibile. Per la potenza mondiale, tanto integralista quanto l’ortodossia religiosa, tutte le forme differenti e singolari sono delle eresie. A questo titolo, sono votate o a entrare per piacere o per forza nell’ordine mondiale, oppure a scomparire. La missione dell’Occidente (o piuttosto dell’ex-Occidente, perché non ha più da lungo tempo dei valori suoi propri) è di sottomettere con tutti i mezzi possibili le diverse culture alla legge feroce dell’equivalenza. Una cultura che ha perduto i suoi valori non può che vendicarsi su quelle degli altri […] L’obiettivo è di ridurre tutte le zone refrattarie, di colonizzare e di addomesticare tutti gli spazi selvaggi, che si manifestino in uno spazio geografico o in un universo mentale.» (Power inferno)

Il pensiero critico deve, secondo Baudrillard, divenire «radicale». «La radicalità è andare alla radice delle cose […] La radicalità non è acquisire sempre più informazioni sul reale, ma passare dall’altra parte». E questo è precisamente quanto Baudrillard non ha mai smesso di fare. Egli non ha mai smesso di essere pensatore «estremo», fino ai suoi ultimi estremismi in cui prende posizione sui soggetti più diversi, sostenuti sempre da un senso acuto della formula radicalisme libérateur.

Sulla clonazione: «Il sesso si era già liberato della riproduzione, oggi è la riproduzione che si libera del sesso […] Non è una pulsione di morte che spingerà gli esseri sessuati a regredire verso una forma di riproduzione anteriore all’atto sessuale.» Ma anche: «Ci parlano di clonazione in termini biologici. Ora, a me sembra che sia stata già preceduta da una clonazione mentale: il sistema scolare, dell’informazione e della cultura di massa permette di fabbricare degli esseri che diventano una copia conforme gli uni con gli altri.»

Sul referendum a proposito del progetto di Costituzione europea: «Il sì, esso stesso, non è esattamente un sì all’Europa, né a Chirac o all’ordine liberale. È diventato un sì al sì, all’ordine consensuale, un sì che non è più una risposta, ma il contenuto stesso della domanda.»

Sulle sommosse delle banlieues: «L’immigrazione e i suoi problemi non sono che i sintomi della dissociazione della nostra società alle prese con se stessa […] Una società in via di disintegrazione non ha alcuna possibilità di poter integrare i suoi immigrati, perché questi sono allo stesso tempo il risultato e l’analizzatore selvaggio di questa disintegrazione.»

Questo approccio ironico, in opposizione ai benpensanti così come a tutto lo spirito del sistema, non gli ha portato che degli amici, a Jean Baudrillard. I suoi avversari l’hanno alternativamente accusato di apoliticità e di irrazionalismo, di misoginia e di omofobia, addirittura di essere un reazionario amorale o un cinico conservatore. Nel 1990, gli avevano rimproverato di aver esumato il pensiero di Joseph de Maistre ne La trasparenza del Male. Nel 1996, la sua denuncia della «nullità pretenziosa dell’arte contemporanea» gli fa perdere la rubrica di cui disponeva presso il quotidiano Libération. Nel 2005, un pamphlet di una stupidità sconcertante, firmato da Thomas Florian, arriva perfino a presentarlo come un «falso pensatore che ricicla tutti i luoghi comuni del pensiero reazionario», e la sua opera come un «mucchio nauseabondo di fesserie»! Il giornale omosessuale Têtu fu il solo a gioire della sua morte.

Baudrillard aveva risposto ai suoi critici nel maggio 1997, in un articolo intitolato: «La congiura degli imbecilli»: «Non possiamo più proferire qualcosa d’insolito, d’insolente, di eterodosso o paradossale senza essere automaticamente di estrema destra (ce qui, il faut bien le dire, est un hommage à l’extrême droite)? Perché tutto ciò che è morale, conforme e conformista, e che era tradizionalmente a destra, è passato a sinistra?» «La viltà intellettuale è diventata l’autentica disciplina olimpica dei nostri tempi».

Alcuni possono trovare che egli «esagerava», senza realizzare che questo grande amatore di cinema e di fantascienza – è esplicitamente citato nel celebre film dei fratelli Warschawsky, Matrix, presentato (imprudentemente) come un’illustrazione delle sue tesi –, appassionato per la fotografia dagli anni ottanta (la sua prima grande esposizione si è tenuta a Parigi nell’anno 2000), non faceva altro, probabilmente, che descrivere i prodromi dell’«iperrealtà».

«Se scampiamo alla morte, scampiamo per forza alla vita», diceva Baudrillard. Generoso, solitario, curioso di tutto, autore di più di una cinquantina di libri, lui che aveva così spesso descritto i processi «virali» in corso nella società, si è spento a causa delle metastasi il 6 marzo 2008. Prendendo la parola alle funzioni funebri, nel cimitero di Montparnasse, il ministro della cultura, Renaud Donnedieu de Vabres, oggettivamente preso alla sprovvista dall’eco mondiale della morte di Baudrillard, al termine della sua breve allocuzione ammetteva di non essere un intimo conoscitore della sua opera: «Avrei voluto parlare con Jean Baudrillard… Adesso, non mi resta che leggerlo». Il serait temps.

—apparso su Nouvelle Ecole nel 2008 | traduzione di Simone Olla

I primi libri di Jean Baudrillard sono stati pubblicati da Gallimard, i più recenti dalle edizioni Galilée e dalle edizioni Sens & Tonk.

Un «Cahier de l’Herne», diretto da François L’Yvonnet, gli è stato consacrato nel 2005, con testi di Michel Maffesoli, Edgar Morin, Philippe Muray, Jean-Baptiste Thoret, Jean Nouvel, etc. (Éditions de l’Herne, 328 p., 49 €).

Alberto Masala | L’arte non può parlare di libertà

Vent’anni. Tanti ne sono passati dal primo dialogo.

Con Alessandro Giammei e Marzia D’Amico posso ormai tentare di trarre delle parziali deduzioni. Già dal 1992, nell’incontro con Luca Panzavolta, e poi nel 2002 con Antonio Barocci, ci mettevamo l’obiettivo di portare il discorso all’essenziale perché potesse fornire stimoli di consapevolezza per i più giovani, soprattutto quelli che agiscono in ambito artistico. Le domande di allora restano immutate: perché si fa arte, a che serve, a chi serve.

Lungi dal dare soluzioni con la mia esperienza personale, credo però di aver aperto dei punti di discussione necessari. Dunque: è possibile smuovere la coscienza del gesto artistico, interrogarsi sui meccanismi che lo condizionano, rendere discutibili i processi, spostare il punto di vista?

Un dato necessario al lettore è non dimenticare che io non sono un filosofo, ma un poeta, cioè uno che ha scelto la pratica dell’arte come metodo dello spirito per poter coltivare ciò che fonda una possibile presenza nel mondo: le tensioni di liberazione, autonomia, bellezza… perché restare umani sia l’obiettivo che guida la direzione di ogni scelta ed etico resti il paradigma di ogni gesto. Governare il difficile rapporto con l’Ego mentre si è credibili socialmente nella propria pratica di dissidenza, testimoniare autonomia interiore… questo è il compito più difficile dell’artista. Ma anche il più necessario affinché non si resti vittima funzionale e manovrata dal meccanismo stesso. La marginalità viene dipinta come fastidioso gradino di passaggio per arrivare poi al successo. Ma gli artisti veri non sono mai “marginali”. Saper restare al bordo dello sciame, rom­perne la regola matematica, saltarne i confini con­taminando viralmente anche l’oltre, richiede grande tecnica e consapevolezza.

Una fortuna che mi assiste in questa condizione è sapere di essere un Indio, un Nativo appartenente a una cultura millenaria. Tutti gli esseri umani lo sono, senza dubbi, ma io, avendo la sorte di essere nato Sardo, sono facilitato nel riconoscere le matrici di molti miei comportamenti. Sono dotato di una lingua ‘altra’ ed ho un metro del mondo che non prescinde mai dalla mia insularità congenita: provengo da una terra riconoscibile che ha confini certi. Ogni mio spostamento nel mondo può avvenire solo se valico questi confini… e lo posso fare se sono dotato di un’adeguata attrezzatura psicologica. Per l’isolano ogni trasferimento verso la terraferma diviene il vero passaggio di una barriera reale, tangibile. Nel poter concretamente riconoscere e affrontare la barriera sta il vantaggio: sapere che c’è sempre un oltre, un distacco e il salto, sono condizioni necessarie a cui veniamo inconsciamente addestrati fin dalla nascita.

In più, la consapevolezza dell’Indio è anche il metro necessario per convivere armonicamente su ogni terra e con i suoi abitanti… è da sperare che ognuno, in ogni contesto, ne acquisisca i parametri così da formare una coscienza individuale e collettiva non prevaricatrice. E queste parole già contengono Utopia.

Vengo da una generazione post-bellica. Abbiamo visto i nostri genitori ricostruire dal nulla e consolidare lentamente le loro piccole conquiste sociali. Guardavano avanti, ma sempre con uno sguardo prudente e timoroso – ancora atterrito dall’esperienza della dittatura e della guerra – che non ci bastava. Abbiamo inventato un altro sguardo, visionario, più rapido ed esigente, irriducibile e altrettanto tenace, ma nella direzione dei sogni, dell’oltre, dello sconosciuto.

Eravamo dei Desideranti, dei coltivatori di Utopia. E producevamo un’Epica del Desiderio. La psicologia necessaria a questa pratica genera un pensiero che, per poter ampliare la conoscenza e la coscienza, necessita di progettare rapportandosi nello Spazio inteso come categoria fondamentale nell’approccio col reale. Creare spazio, estenderlo e difenderlo dalle restrizioni era il nostro indiscutibile quotidiano che dava origine a progetti collettivi, universali.

Così negli anni successivi siamo stati puniti, incorrendo in una sanguinosa restaurazione. Qui non voglio rievocare, ricostruire storicamente, ma solo ricordare quante e quali energie siano state spente con le strategie dell’eroina e della tensione. Anni di Piombo, di dolore senza catarsi, che hanno lasciato ombre inconsolate.

Attraverso questo che possiamo chiamare un vero e proprio genocidio generazionale, si è giunti oggi alla generazione degli Aspettanti.

A quella precedente, per decadimenti progressivi e apparentemente ineluttabili, si è sostituita una nuova Epica delle Merci.

Possedere, apparire, arrivare, sono diventati i paradigmi dell’azione che, da collettiva, si è ridotta a progetto personale, ad aspettativa individuale. Così la categoria del Pensiero ha ceduto forza a vantaggio di quella dello Sguardo. La volontà individuale, bulimica e paradossalmente retinica, è oggi misurabile in pixels. Ma l’aspetto più drammatico è la restrizione della prospettiva verso l’individualismo che, riformulati i parametri dell’approccio col reale, ha cominciato a riprodursi acriticamente nelle condizioni imposte dal Sistema. In una società così debilitata, ecco morire l’Utopia dello Spazio e risorgere il Tempo come percezione e parametro esistenziale. Ecco il Tempo imporsi su di noi con tutta la sua angoscia rinnovata.

Questa società, nella migliore delle ipotesi, è in grado soltanto di produrre incredibili giustificazioni per la sua marcia inarrestata che procede verso la distopia, la società indesiderabile dell’immaginazione letteraria e cinematografica. Ciò che appariva fantascientifico diventa concreta previsione del reale. L’Utopia resta, ma, rovesciata come Hitler rovesciò la svastica, viene utilizzata soltanto da coloro a cui è ancora permessa: il Sistema di Controllo che costruirà maglie sempre più oppressive e totalitarie.

Viviamo in epoca di crisi finale del progetto capitalista. L’imperialismo ha impiegato un secolo per raggiungere la sua metastasi e sta causando drammi irreparabili, genocidi, conflitti etnici, guerre mascherate con ridicole quanto insostenibili ipotesi ‘civilizzatrici’. Ovunque vengono progressivamente abbattuti i parametri dei diritti sul lavoro e sul welfare. Ma intanto la coscienza ambientalista e anticolonialista procede dal basso e si ricomincia a parlare di dignità. Il pensiero della decrescita avanza nelle coscienze man mano che si propagano gli effetti del fallimento della crescita, l’implosione dell’apparente infinità dell’evoluzione dei consumi. La domanda, ampliata in modo esponenziale, ha raggiunto la saturazione esprimendo merce il cui costo principale, come già dicevo, è quello dell’induzione di massa all’acquisto, la creazione del bisogno, la promozione della merce stessa.

L’arte intanto viene utilmente ricondotta a “spettacolo” funzionale al consenso dando così ragioni per ripensare alle analisi di Debord, Benjamin, Foucault. E quando, come diceva appunto Debord, «il sogno diventa sonno», non si sente più parlare di progetti collettivi di pensiero, anzi, si osserva sempre più diffusamente il crescere di una sorta di neo-manierismo superficialmente emozionale e profondamente egotico, mentre gli artisti lavorano come non mai alla costruzione della propria carriera personale. In questo impoverimento delle fonti, e seguendo la stessa direzione dell’industria, anche l’arte investe nella propria apparenza: il marketing diventa paradigma rendendo simulacro l’oggetto che vede così ridotta la propria capacità storica, ovvero la possibilità di sostanziare utilità e pensiero durevoli.

E mentre fino agli anni ’80 l’arte immateriale di Fluxus e Beuys rappresentava una forma di resistenza del pensiero, una barriera alla mercificazione dell’opera, oggi è la società che, diventando essa stessa immateriale, ha ugualmente superato l’oggetto, ma per adottarne la rappresentazione simbolica, il fenomeno svuotato di pensiero: dalla sostanza all’evidenza, dall’interiorità alla forma e al suo possesso.

Il prodotto artistico può ancora più agevolmente confortare il Sistema, non producendo altro che uno shock (Benjamin), ma di sempre minore durata e maggiore prevedibilità, in cui la vera qualità dell’opera è la fruttuosa gestione economica e mediatica dello scandalo: far esplodere tutto nell’apparenza per non spostare mai niente nella realtà.

Lo psicodramma è in atto. Agli artisti viene assegnato il compito di testimoniare una libertà fittizia, nella realtà duramente negata. È concessa perfino la facoltà di interpretare in maniera esorcizzante le peggiori pulsioni della società. Tutto è possibile, purché confinato nella decorativa sfera della rappresentazione. Un’arte inoffensiva e ben governabile, utile a confermare lo status quo del potere, ulteriormente rianimato dal rinnovato carisma degli apparati istituzionali. I Musei, gli Eventi, i circenses operano nella castrazione di ogni spinta non omologata, nel silenzio di una critica sociale e culturale (quella più coraggiosa è diventata rara e spesso forzata all’invisibilità), hanno buon gioco nel formare l’utente-modello: intimorito, indotto alla passività, allo sguardo irresponsabile, inebetito nella contemplazione del feticcio, distratto dalla vorticosa sovraesposizione agli stimoli. All’eccesso di visualità si risponde con un’accresciuta incapacità di vedere. È l’ascesa del regno del Virtuale sostenuto dall’affermazione dello zapping-pensiero.

Sto ovviamente parlando dell’arte che viene ammessa alla visibilità e che può tollerare anche fenomeni divergenti, purché provenienti da lontane aree geografiche. Anzi, se restano concettualmente e geograficamente distanti nella loro collocazione di denuncia, servono, loro malgrado, a rassicurare il Moralismo Occidentale nel giudizio su altri sistemi di vita. L’opera critica nata in Iran o in Cina, sebbene dimostri grande forza espressiva, giusti contenuti, onestà intellettuale… una volta immessa nel mercato serve a confortare The Western Civilization.

E le dissidenze nate in loco? Qualora acquistassero – per loro esclusivo merito – spessore e visibilità mediatica, vengono invece inglobate, come da sempre, col meccanismo ben oliato della gloria e della fama.

E solo pochi infine resistono: i più per ideologia romantica, alcuni per consapevolezza etica o politica.

In parallelo, nella società, la dipendenza dal bisogno acquista un’estensione ipertrofica pur smascherata continuamente dalla propria matrice simulativa. E nella vita irrompe la rappresentazione della vita in dolorosa e tangibile discordanza con la vita reale: emergono i bisogni concreti delle persone, ridotte in una povertà sempre più estesa e capillare, ma che continuano ad assumere la cultura di rutilanti modelli televisivi di successo e apparenza.

Immigrati che arrivano a ondate per l’impoverimento causato dalle nostre politiche economiche di sfruttamento coloniale, profughi che fuggono da guerre e genocidi, homeless, diversi… e poi le catastrofi, quelle di origine umana e quelle naturali, da noi stessi provocate per un cattivo uso del territorio… tutto questo costituisce un fastidioso disturbo visivo al programma diffuso dal Sistema di Controllo Sociale. Complicanti fenomeni da occultare e respingere. È così che diviene feroce la difesa del privilegio nel teatro dell’Apparenza.

La Pedagogia del Sistema agisce formando individui ad esso funzionali, educati secondo regole morali e ideologiche. È la costituzione artificialmente forzata dell’identità che viene proposta dai sistemi.

Ormai sono gli stessi governanti a proporre un disegno egoico sostenendo l’idea dell’amministrazione della cosa pubblica secondo il modello dell’impresa privata, del profitto. Come se il godimento dei diritti e del welfare fossero un costo, un peso, un fastidio da eliminare.

In queste condizioni, unica forma di resistenza è la pratica quotidiana, personale e collettiva, della decolonizzazione, la riconquista dell’autonomia interiore a partire da noi stessi.

Spogliarsi dei modelli ideologici, inevitabilmente carichi di forme apparenti, per praticare modelli etici: l’arte è chiamata a questa funzione per potersi dimettere da una forzata condizione di funzionalità pedagogica, di rigenerazione dei Sistemi. Detto in parole semplici: l’arte non può parlare di libertà, ma deve invece parlare di liberazione.

Banale dire che è l’uso che si fa delle parole e non la vuota pronuncia di esse a connotarle nel reale: la parola libertà non porterebbe in sé valenze negative, ma viene appesantita nel momento stesso in cui la si proclama come principio morale. A quel punto si carica di ideologia vuota e opaca e impedisce artatamente l’approccio alla realtà.

Come già dicevo fin dalla prima intervista (1992), ci è possibile soltanto coltivare la direzione, la tensione verso le cose. Ma ogni tensione, per agganciarsi allo spirito di chi la trasporta e la testimonia, deve affrancarsi da ciò che la irrigidisce: il dogma della visione morale che sempre deriva da un potere che detta le regole morali per garantirsi la propria perpetuazione.

L’esempio più aderente ed esplicativo di questa attitudine è l’assegnazione aprioristica di un valore spirituale come il battesimo cristiano. Avviene quando l’individuo ancora non può esercitare il libero arbitrio, la scelta. Viene imposto ereditariamente e determina l’acquisizione incancellabile di un’identità. E non a caso qui si parla di identità. Mi riferisco a quella condizione di sterile immobilità, definitiva, anche nel senso che definisce, confina in un modello artificialmente predeterminato.

Noi insieme è la declinazione della quarta persona singolare e plurale in ogni comportamento collettivo che si dissocia dalla condizione manicheo-morale dell’identità scegliendo quella relativo-etica dell’appartenenza.

Intuisco che sia ancora poco chiara la differenza che ho scelto di frapporre a due concetti che spesso coincidono: Morale ed Etica. Per essere esplicito, riassumo l’esempio di Bauman in Società, etica, politica.[1]

L’uomo di Rousseau è per natura buono, l’uomo di Hobbes è cattivo, l’uomo di Bauman, quello che mi convince maggiormente, è sociale: né buono né cattivo. Da questa conclusione qualcuno potrebbe derivare che l’uomo è quindi morale per natura. Ed io resto inappagato da una tale semplificazione: la socialità è istintiva, animale, una dote funzionale alla difesa della specie; la moralità una sovrastruttura organizzativa. Da agnostico non posso accettare che esista un pensiero umano per natura che possa anticiparne la formulazione culturale. Sarebbe rischiosamente vicino ai concetti di assoluto e trascendente. Sono più portato ad ipotizzare un pensiero immanente che non possa precedere l’uomo: prima dell’esistenza dell’essere non può formularsi pensiero.

A queste condizioni, il pensiero morale si indirizza alla sistematizzazione della socialità e, nella sua peggiore applicazione, ha quindi una funzionalità concreta nella gestione del Sistema di potere, essendo mater certa di ogni integralismo.

Ora ritorno a Bauman per adottarne il geniale indizio che utilizza per rivestire l’Etica della sua capacità fondamentale: quella che consente all’uomo il poter dire no. La scelta, il libero arbitrio, la possibilità di selezionare fra le alternative, sono le costituenti dell’esistenza umana e della formazione della propria Etica, che, nell’idea che mi sono formato, non viene da un dogma assoluto e contiene in sé la coscienza di avere sempre possibilità di modificarsi, perfezionarsi nel percorso.

Non ha regole date. Quando le crea, può accettarle solo come regole di passaggio, temporanee stratificazioni che preparano allo stadio successivo di coscienza, dove si dissolveranno creando le basi dei comportamenti concreti.

La volontà che la alimenta è consapevole nell’organizzare le proprie tensioni quanto è distante dall’ego nel testimoniarle. Ad essa ci si accosta per scelta di appartenenza.

Ed è solo così che procediamo: prendendo parte, restando partigiani, appartenendo.

NOTE

[1] Zygmunt Bauman, Società, etica, politica, Raffaello Cortina, Milano 2002

Davide Gianetti | Il linguaggio contemporaneo e il totalitarismo dolce

“Keep it easy, stupid”. Si tratta di una delle nuove regole che imperversano nel giornalismo anglosassone da qualche anno a questa parte. Specchio e simbolo di una mondo occidentale ipertecnologico che fonda sulla velocità e sul parossismo la propria ragion d’essere, la propria cifra esistenziale e identitaria, la semplificazione dei pensieri, dei discorsi, dei concetti, confinata in àmbito specialistico – quello della comunicazione multimediale – conquista ora nuovi territori e si allarga all’intero corpo sociale. La massificazione mondiale, conseguenza e approdo ineluttabile di una civilizzazione condotta secondo parametri puramente quantitativi e materialistici, esige d’altro canto un linguaggio nuovo, più semplice, che sia possibilmente asettico e neutro, in grado cioè di unificare, non solo verbalmente ma anche e soprattutto concettualmente, le diverse realtà locali del pianeta. Lo stile di vita occidentalizzato – produrre, consumare, morire – pur avendo ottenuto un’obiettiva uniformità nel modo di vivere presso i vari popoli della terra, necessita di un ultimo processo unificativo, quello linguistico. E non si tratta solo di una necessità di tipo economico, poter mettere in relazione verbale gli uomini d’affari del mondo, ma di un’esigenza finalizzata ad espellere dai processi mentali che sovraintendono all’intelletto qualsiasi tipo di pensiero eterodosso, critico, scettico, dal momento che l’impianto ideologico dell’occidentalizzazione riposa su fondamenti dogmatici nei confronti dei quali occorre mantenere un costante atteggiamento fideistico, una sorta di riverenza religiosa, cancellando al contempo qualsivoglia ombra di dubbio o di incertezza circa la validità di un sistema di vita ritenuto l’unico possibile, il più razionale e il solo che un uomo dell’Occidente possa sinceramente agognare.
Occorre quindi un codice linguistico ad hoc, “scientifico”, che sia rigorosamente avalutativo e indefinito perché ad oggi tutti i linguaggi conosciuti, a prescindere dalle buone intenzioni dei suoi utilizzatori, non garantiscono quel livello di neutralità che l’attuale livello di mondializzazione esige dai propri componenti.
La manipolazione e la contestuale mutazione del linguaggio costituiscono le tappe intermedie, ma necessarie, di un percorso al termine del quale troviamo un codice linguistico standard che elide le eventuali diversità comunicative legate ad una specifica forma mentis.
Come avviene concretamente questa mutazione semplificativa del linguaggio umano? Anzitutto fissando delle griglie metodologiche dalle quali è impossibile evadere. Avremo così un numero di parole prestabilito, tendente comunque a restringersi e in particolare assisteremo alla soppressione di subordinate relative e incisi a vantaggio di brevi coordinate dove il soggetto è quasi sempre posto all’inizio della frase.
Questo tipo di scarnificazione linguistica viene teorizzata e giustificata, oltre che da pretese ragioni di obiettività e neutralità, sulla base della necessità di adeguarsi ai ritmi della vita contemporanea, frenetica, impaziente e superficiale.
Ciò è vero solo in parte dal momento che l’accelerazione informativa non necessariamente segue quella esistenziale, in alcuni casi anzi precedendola o semmai accompagnandola.
D’altra parte l’esplosiva affermazione delle nuove tecniche multimediali, che tendono a fondere tra loro giornali, televisione e computer, contribuisce senza dubbio a modificare in maniera irreversibile il linguaggio e le operazioni mentali ad esso connesse.
La convergenza alla progressiva unificazione multimediale frantuma infatti il nostro universo comunicativo nella misura in cui alla tradizionale temporalità lineare e sequenziale, a cui eravamo tanto abituati, subentra una temporalità diversa, simultanea.
Oggi si legge un libro come si guarda un video e si naviga in internet come si sfoglia un giornale.
Tutto ciò produce degli effetti collaterali a cascata, specie sotto il profilo linguistico. Dal punto di vista stilistico il ritmo della lettura è ora sincopato, saltellante, irrequieto, in linea con l’orizzonte sensoriale dell’internauta – lettore – spettatore, mentre dal punto di vista contenutistico si accentuano gli aspetti drammatici, spettacolari e morbosi degli eventi. La comparsa delle “emergenze”, che poi diventano croniche – immigrazione, pedofilia, criminalità straniera, sicurezza ecc. – è in questo senso perfettamente funzionale all’attuale modello di vita occidentale: esse infatti da una parte soddisfano il morboso guardonismo del cittadino medio e dall’altra giustificano la presenza di un apparato poliziesco perennemente in crescita ma percepito come rassicurante al cospetto di eventi vissuti come catastrofici e incombenti.
L’illusione della neutralità informativa, che il mondo della comunicazione vanta come finalità suprema verso cui tendere, viene allora precocemente abortita sull’altare dell’audience che tutto esige e tollera – sensazioni forti, situazioni scabrose – meno che sobrietà ed equidistanza.
A proposito tuttavia del potere che l’opinione pubblica avrebbe nel determinare certe scelte e nell’indirizzare certe decisioni, occorre rilevare come la tanto decantata interattività cittadino – mass media, simboleggiata da sondaggi in tempo reale, forum su internet, sms, mail, lungi dal rafforzare lo spirito democratico, si riveli al contrario marginale e ininfluente al cospetto del sistema economico – politico e delle sue dinamiche.
Solo a titolo esemplificativo: la politica estera della più grande superpotenza del globo (Stati Uniti) è stata negli ultimi anni condizionata e indirizzata da teorie elaborate in pensatoi, riviste e giornali, a bassissima tiratura e a scarsissima vendita. Contemporaneamente, affermate e prestigiose testate giornalistiche a grande diffusione, ospitando posizioni e interventi contrari a quelli “ufficiali”, spesso su pressione e gradimento dell’opinione pubblica, mostravano tutta la propria impotenza quando si trattava di incidere sulla realtà degli avvenimenti, alla pari del “popolo di internet” e dei suoi irrilevanti blog.
Ecco perché la riflessione e l’approfondimento, sospinti ai margini ed espunti dal circuito massmediatico principale, diventano appannaggio di minoranze elitarie concorrendo quindi a quella polarizzazione della nostra società che rappresenta la cifra distintiva di una cultura sostanzialmente antidemocratica.
Anche la presunta carica emancipatrice della cosiddetta “cybercultura” e del suo idioma “nomade”, de – territorializzato per definizione, si rivela un bluff perché adombra il miraggio di un protagonismo fittizio, proiezione irreale di quella testualità informatica dove immagine, parola e suono superano i preesistenti e obsoleti steccati comunicativi in direzione di un impoverente linguaggio globale e di massa. Lungi dall’intaccare i capisaldi della civiltà dominante, la cybercultura partecipa alla costruzione della lingua unica dal momento che, pur contestandone i presupposti, utilizza quegli stessi strumenti tecno – informatici che mutano i percorsi mentali dell’individuo, indirizzandolo così verso il tanto aborrito linguaggio unificato.
Questo codice linguistico mondiale, in quanto tale, deve tuttavia contenere al proprio interno un corpus comunicativo estremamente asfittico e facilmente accessibile ai più affinché possa davvero essere manducato e digerito senza inutili complicazioni di sorta.
Ma la standardizzazione del linguaggio precede la massificazione dei gusti, delle opinioni, delle scelte.
Già nel 1928 Charles K. Ogden tentò di manipolare e semplificare il linguaggio – nel suo caso inventando il cosiddetto “Basic English” – teorizzando la soppressione dei verbi dal vocabolario, il ricorso sistematico alle abbreviazioni e la riduzione dei termini più complessi in termini più semplici, onde pervenire a concetti base indefiniti e veri.
D’altro canto organizzazioni e sistemi politici totalitaristi come il Minculpop, la Gestapo e il Comintern fecero esperimenti simili dimostrando un’acuta sensibilità per il controllo e la manipolazione del linguaggio.
Come aveva ben intuito George Orwell nel suo “1984”, ogni regime totalitario favorisce e promuove l’indigenza lessicale poiché essa è senza alcun dubbio il miglior stabilizzatore sociale.
Ma la lingua è un prodotto culturale specifico, figlia e specchio delle operazioni mentali di individui che appartengono a una determinata civiltà e in quanto tale molto difficilmente può essere sottoposta ad operazioni di smembramento e assemblaggio all’interno di formule comunicative “altre”.
L’idea di creare un codice linguistico unificato, asettico, neutro, tradisce l’illusione di poter giungere ad una lingua pura, perfetta, ma “la storia delle lingue perfette – come ammette anche Umberto Eco – è la storia di un’utopia e di una serie di fallimenti”.

Fabrizio Gabrielli | Faccio di quei passaggi, vè?

E CHE VUOI FARCI, HO QUESTO NEO
Non mi faccio abbracciare spesso, io.
Diciamo che è per via di una sorta di paura.
E che vuoi farci, ho questo neo.
Il mio neo, uno dei, è grande e grosso e se ne sta sulla schiena, al centro. All’altezza del gancetto del reggiseno, m’ha detto una volta un medico dei nei, un dermatologo dell’Idi di Roma. Si dice un dermatologo anche se era donna, vè?, medica non si può: come verbo alla terza persona singolare tanto tanto, ma come sostantivo è una bruttura, la medica dei nei; lei sì che indossava il reggiseno, io invece mai fatto, nemmeno nelle fantasie più sconce. Che io poi ce l’ho avuta nelle orecchie più d’una volta, da ragazzino, una frase che diceva dobbiamo andare all’Idi di Roma, e misinterpretavo a Lidi di Roma: Ostia Fregene Maccarese, tipo, pensavo, e montavano subitanee preoccupazioni, dovrò cospargermi bene il neo di crema, riflettevo corrucciato, ero uno di quei bimbi che usano il verbo cospargere, un’infanzia difficile, la mia, uguale a tutte le altre solo in un aspetto, quello per il quale avere otto anni fa rima con ignorare l’omofonia.
Il mio neo è una sorta di bottone dell’amicizia, qualcuno deve averlo premuto inavvertitamente mentre eravamo sul trenino per Fiumicino Scalo, ed ora niente, per quella sbadataggine trenìcola mi ritrovo interdetto agli abbracci. Proprio costretto a tirarmi indietro. Anzi, peggio: ad avvisare, a mettere in guardia, come Nanni Moretti in quella scena di Caro Diario, faccia attenzione ai nei, eh. Che a pensarci bene è un po’ come se prima di baciare mi prendessi la briga di illustrare i movimenti, dunque signorina, ora introdurrò la mia lingua nella sua cavità orale compiendo dei movimenti circolari da destra a sinistra, in senso antiorario: non è una gran bella abitudine, vè?

Carlo m’aspetta al gate, trascino un trolley sovraccarico e lo scorgo con le braccia incrociate sotto la barba. Occhio al neo, quando m’abbracci: è la prima cosa che dico, forse non proprio la prima, sicuro avrò sciorinato un bellalà, oppure un ueh, le ròbe che fanno rumore nei momenti in cui ci si vede da lontano, mi ricordo mica, ora: però son sicuro che il passaggio successivo deve esser stato usciamo, che devo fumare.
Non mi riesce di stare troppo distante dal tabacco, a me.
Diciamo che è per via di una sorta di vizio.
E che vuoi farci, ho questo neo.
All’aeroporto di Cagliari, era quest’estate e sverginavo i miei approdi in Sardegna per le vie aeree, fumavo ancora cammelli blu, avevano quel nome anche di fronte al tabaccaio, dei cammelli blu, dicevo; perdevo un sacco di tempo a farmi capire, dicevan quasi sempre eh?, ed io ripetevo più lentamente, ma esplicitavo mica, spiegavo mica un pacchetto di camel blu. Cammelli. Blu. Ora tutto il tempo di quel botta e risposta lo impiego ad elencare pueblo; rizlabluccòrte; filtriultraslìm. Non che sia meno criptica, come lingua. Epperò è un impiegare il tempo in maniera più fruttuosa, sembra.
Con Carlo parliamo di lettere, potremmo discutere di argomenti meno fumosi, tipo perché è un po’ Simone ed un po’ Carlo, ma non importa: di romanzi ci vien meglio, è tutt’un citarci ed eccitarci con Cortázar e Vila-Matas, avevo una discreta dipendenza da Vila-Matas, quest’estate, nel frattempo aspettiamo che un altro volo a basso costo rimbalzi sull’asfalto e nell’attesa fumare scrittura parlare: viene bene, e piglia bene, in fondo. Siamo gl’unici nell’androne che non indossino una paglietta, o una maglia fighetta, e non è che siamo in Sardegna per bere, ballare, trombare.
Simone e Carlo m’hanno invitato per fare lo scrittore, tipo.
Noialtri s’ha da fare le cose dei libri.

SIMONIA, STENT’A DIRLO
I simoniaci, nella Divin Commedia, stanno al terzo anello, come i tifosi della squadra ospite a San Siro: in castigo per essersi macchiati dell’efferato reato di mercimonio di beni spirituali, gli tocca passare l’oltrevita a testa in giù, fuoco a lambirgli i piedi nudi.
Simone Rossi non indossa le scarpe, non lo faccio da maggio, ti dice, ci sarebbero le infradito ma a piedi nudi si sta più comodi, l’asfalto che ti bacia la pelle dura dei talloni e l’ukulele sotto le dita, non c’è null’altro che ti serva. Io, che Simone abbia capito svariate ròbe più di me son sicuro, e poi non è mica un segreto, si dice un po’ ovunque, dài che l’hai sentito pure tu, dallo Spazio Meme di Carpi al bar del Giambellino, che Simone sia un Mago.
Se leggere pezzi di libri mentre qualcuno suona può essere considerata una mezzaspecie di produzione di beni spirituali, e regalarli ad orecchie fameliche è un po’ mercimoniare, noialtri sì, si è simoniaci, mi ci metto anch’io, che mi chiamo Fabrizio e questa sera voglio provare con un inedito, ho detto prima di iniziare, solo volevo accertarmi che non ci fossero tolfetani o allumieraschi in sala perché sapete, quando porto il katacrascio vicino casa mia non posso mai leggerlo, questo passo: c’è che mentre le scrivevo mi veniva di scimmiottare il dialetto di questi paesotti poco lontani da Civitavecchia, no?, ve l’ho detto già che vengo da Civitavecchia, vè?, dall’altra parte precisa precisa del mare, ed ecco, se stasera non ce ne sono, direi che ci provo. M’han dato fiducia, è strano perché non si dovrebbe dare mai fiducia ad uno che indossa una polo con il colletto rialzato, è quasi un assioma. E invece niente: c’ho provato, che io quando c’è modo di parlare in tolfetano vado in sollucchero, anzichenò, e pure il proprietario del locale, col gilet di pelle ed i baffi da easy rider, m’è sembrato abbia accennato un sorriso.
In fondo alla serata al Dulcis, che a rigor di logica dovrebbe chiudere il festival ed invece è una sorta di gustosa anticipazione, ci stanno le Ichnusa ed i cannonau, i disegni estemporanei di Luca Congia, il mirto che devi assolutamente provare ed i romanzi che devi assolutamente leggere, c’è l’amicizia e il tirar tardi, sempre con Vila-Matas, sempre con gli odradek che pigliano a girare impazziti per la stanza ed il tuo come si chiama?, il mio Lénghero, ha il corpo da nocciolina ed un mood pugnace, diciamolo a tutto l’internet, tumbleriamolo, quanto è figo tumblerare?
Il lénghero mi guarda di traverso mentre m’addormento nel lettino della sorella di Carlo, dove ci son tanti insetti disegnati sulle coperte che quasi sembra d’essere in un coccinellòdromo.

Allo Stentadì, ch’è la residenza autori, siamo tanti e belli.
C’è l’elena, io la chiamo elenini ma sulla carta d’identità che ha lasciato per il cecchino c’è scritto Elena Marinelli (una volta ha letto Georgie Blues allo Zammù, Elenini, me ne sono innamorato, di quell’interpretazione, e non me la scordo più); sta studiando da elettrauto per cercare di mettere in moto una Centoventotto rossa sulla quale, con melliflua perizia, ha stipato le sue novelle preferite, incastrate a dovere, c’è da controllare filtro ed olio, poi nient’altro, solo brumbrum.
Bicio col contrabbasso, perché noialtri non si prende più nemmeno il caffè, senza contrabbasso, dice simonerò, che mi sento sempre un po’ in colpa, se ripenso a Bicio, per avergli mandato a noia Rapper’s Delight ed il di lui bàssico giro: tun-tun-tun, suonalo ancora, Bicio, più aggressivo Bicio, la sugarhill gang potrebbe quasi querelarmi, se solo Bicio facesse la spia.
E poi Elì. Migué. Carlopalì e Marialuì. Tutti lì, allo Stentadì, dò tra le tante cò decidià di fa così: abbeverarci ed abbreviarci.
Ci diamo da subito un’organizzazione che sembra d’essere in un collegio delle suore carmelitane scalze, ma senza collegio, senza suore e senza carmelitanesimo. Non ci resta che il girare decalzaturizzati: scalzi si prende l’acqua in frigo, scalzi si esce a fumare, scalzi si copia il codice dell’internet dalla bacheca e ci si abbraccia quando ci si incontra.
Io no, però, che degl’abbracci ho paura, ho il bottone dell’amicizia spento, sapete.

DEGLI UNIVERSALI
Ho sentito parlare per la prima volta degl’universali che pioveva tutto il cielo. Le professoresse che si davano il cambio sul ring, come cholitas ma meno agguerrite, erano una l’involucro dell’altra. Sintassi ce lo spiegava un truciolo riccioluto, una maschera del día de los muertos, ed era tutt’un magmatico sintagmare amalgami soggettoggettopredicato. Universali linguistici aveva i polpacci di Gigi Riva, il phisique du rôle di Margherita Hack ed una naturale predisposizione al soporifero.
L’esempio di come si somiglino un po’ tutte le mamme del mondo sarà pure sputtanato ma è di sicura presa, diciamolo, una sorta di obolo preventivo, incassato il quale finisci per accettare pacificamente pure l’annichilimento d’una lezione di tre ore sul ruolo dei focus marker nelle lingue cuscitiche, che con tutto rispetto per gl’etiopi sono lingue un po’ del cazzo, le lingue cuscitiche.
Una regola degli universali linguistici dice che se nel tuo modo di parlare distingui tra maschi e femmine, allora nove su dieci che ti poni il problema di far capire se sono tanti maschi o poche femmine. Se una lingua ha genere, ha pure numero. Lo dice Greenwood, dei boschi verdi ci si deve fidare per forza, c’è il fascino orrorifico del mostruoso, nel verde, e pure nei boschi. Tanto più che pei boschi stai passandoci, l’ho già detto che il festival dei libri di Quartucciu si chiama Passaggi per il bosco, vè?, e allora tempo per riflettere ne hai mica: la fiducia deve tramutarsi in fede, cieca, incondizionata.
A Cagliari, quando soffia il maestrale (il maestrale è maschio) di notte in spiaggia (spiaggia è femmina) non ci resisti troppo a lungo, neppure con la felpa col cappuccio. Il maestrale a Cagliari non ci riesce proprio ad essere singolare, se tira un giorno allora ne spirerà per altri due, è sempre dispari, il maestrale, e mai singolare: una ròba singolare, vè?
Ed anche le spiagge, ecco, ce n’è mica solo una, di spiaggia a Cagliari, seguono una numerazione: spiaggia dodici è prima di spiaggia venticinque, che mi sembra pacifico, e su ognuna ti frusta il maestrale, tu stai capelli spettinati tutt’il tempo e non c’è troppa simpatia, in questo accadimento.
Un universale linguistico che m’è venuto pensato a Cagliari, una sera di maestrale, è che in tutte le parole con una doppia zeta, magari pure tripla, c’è come una patina di cattiverìa, d’ostracismo congenito e gratuito: il caddozzo noialtri lo chiamiamo zozzone, facciam pure meglio dei sardi, ne infiliamo tre, di zeta: il caddozzozzone è quel camioncino ambulante che prepara i panini con le salsicce unte e bisunte tuttodì. Allo Stentadì, panini non se ne possono preparare, la cucina è bella ma di figura, non la si può mica utilizzare, ed allora se ti sale la fame l’unica è il caddozzo.
Davanti al caddozzaro non c’è mio, tuo, suo, pur essendoci tu, lui, lei e pure lui, ed alla fine anche io.
Un altro universale linguistico è che in tutte le lingue del mondo ci si piglia la briga di far capire all’altro che io sono io, tu sei tu e quello laggiù, quello che coi guanti di lattice infila le melanzane in mezzo al pane, bene, è lui.

Facciamo così, mettiamo che tu mi racconti quello che ha combinato lui: io prima stento a crederci (allo Stentadì si fanno solo cose che c’entrano col nome, si stenta, si ostenta, si discute con gl’astanti), poi però lo scrivo, senza far nomi, che non sta bene parlar male degli astenti.
“Enrique Vila-Matas un giorno finì che lo invitarono per davvero, ad un festival, lui non sapeva come arrivarci, mi dite dov’è il ponente?, chiese, gli dissero il ponente dov’è che stava e lui marciò, marciò in disciplinevole silenzio, finché non giunse a Limerick.”
Non è importante che tutte le lingue si adeguino ad un certo universale linguistico affinché questo venga considerato tale, pontificava Greenwood, l’importante è che nessuna di queste lo contraddica. Che mi sembra un postulato tremendo, di quelli che ti mettono l’ansia sotto le unghie. Come dire l’eccezione invalida la regola. Mi son sempre chiesto come la prendano, gli undici titolari della regola, il sopraggiungere in punta di piedi del signor Eccezione: buongiorno sono Eccezione e secondo me siete assai bellini con le vostre divise da giuoco, però in campo non potrete scendere mai, non siete davvero una squadra, ciao, me ne vado. Credo non bene, credo a sassate sul grugno, la piglierebbero: meriterebbe la lapidazione ogni volta, l’Eccezione.
A me, mai passata per l’anticamera dell’ippotalamo, l’idea di andare in ferie dalle lettere, e dico ippotalamo perché è in quell’area del cervello che risiedono gli appetiti sessuali: non scrivere volendolo è come desiderare di non avere più un’erezione, una stramba preghiera invero.
Conta poco che quattro scrittori sotto lo stesso tetto passino metà delle giornate a scrivere: l’importante è che nessuno si astenga dal farlo, solo così formerebbero un meraviglioso universale linguistico, e parlerebbero di loro in un’aula magna a romatré, mentre fuori piove tutto il cielo e gli studenti son intirizziti: magari si divertirebbero, quegli studenti, ultimo barlume d’interessantitudine prima di scivolare nel torbido fiume dei focus markers nelle lingue cuscitiche.
Cosa c’entri Vila-Matas con Edoardo Lear e col suo limerick di Lucca stent’a dì, stent’a dirlo, cari i miei bolidi, sono le treqquaranta, la passione per le q doppie non s’è ancora sopita e a Stentadì dormon tutti. O quasi.
Non io: troppo impegnato a non truccarmi da Eccezione, io.

LA MORTE SUA, LA MARTA MIA
C’è sempre una Marta, in letteratura: Marta, nei libri, è la morte sua.
Bisognerebbe chiederlo al Visinoni, che con la morte s’impiastriccia le mani, non fa il becchino ma scrive i noir e cita James Ellroy col suo tono di voce blues, quante volte una Marta è stata uccisa dentro una trama: ci dica, Visinoni, lei che di morte sembra saperne, mentre di Marte non lo so, non conosco la sua Weltanschauung sulle donne dei romanzi né tantomeno le sue conoscenze astronomiche.
Una battuta apocalittica, vè?
Da farti esclamare wow, ma anche no.
Altre ròbe che sono la morte sua: i cardigan di cotone sulle t-shirt quand’è sera, le spillette sui cardigan, sbriciolu(na)glio letto sul contrabbasso e sull’ukulele, il dentifricio sullo spazzolino (prima sul tuo, e poi sul mio), la Nutella sul pane tagliato a tranci. La Nutella sulle scarpe: no. Buenas salenas cronopio cronopio sulle scarpe: sì. Il mirto nei bicchierini di carta: assolutamente. Il porceddu di domenica: vorrei ben vedere.
Di Bolero costretto avevo sempre sentito parlare, sapevo ch’era una ròba simoniaca ma non ero mai stato presente al mercimonio di cotanto bene spirituale, ed è d’un fascino inquietante, Bolero costretto, come il rumore dei pattini sul parquet o l’irrequietezza dei piedi nudi mentre si legge, come i mignoli palmati o la posizione del riposo troppo simile a quella dell’eterno riposo.
Chiara che arriva mentre sto leggendo al Canone Inverso quel pezzo su Vila-Matas che secondo me è easside, mica wesside, Chiara che cinque giorni prima le ho chiesto d’essere per sempre, Chiara che non si chiama Marta ma che con i libri e con le cose che faccio coi libri c’entra sempre: un’altra, la più meravigliosa, morte sua.

L’ULTIMA PAROLA è IMMAGINAZIONE (OPPURE ZACCARSELA ALLA PENSC. OPPURE ANCORA: SENSO)
Alberto Masala, che di cemento e strada ne ha visto e masticato tanto, e ne sa, c’è dell’abbardente nel bicchiere e l’ombra degli asciscini sui tetti delle case, Masala dice solo quattro regole, quattro, per onorare il contratto che hai con il tuo pubblico: cattura la sua attenzione, mantienila alta, fatti seguire, e poi trasmetti senso. Proprio così, dice, trasmetti senso.
Quartucciu è un’appendice nervosa e farwèstica di Quartu Sant’Elena. Ha un senso, dopotutto: è una piccola Quartu, come l’Arena di Verona all’Italia in miniatura, io ci rimasi a bocca aperta davanti all’Arenuccia. Quella grande, quella vera: non mi ricordo.
Per le strade di Quartucciu alle duemmezza del pomeriggio ci sono solo io, io e la canicola, con un occhio solo, l’altro è serrato, l’altro piange, sarà per la salsedine lo stress le cose che non vuoi vedere.
In collera e senza collirio, con tutt’attorno un corollario di Corolla color corallo che corrono il rally, c’è che alle sei presentiamo il katacrascio e io c’ho di quelle madonne che nemmeno ad immaginarle.
“Immaginazione è l’ultima parola, in quel libro di Henry Miller”, me lo dice Carlo ed io ci credo. Immagino, scioccamente e con faciloneria, che immaginazione sia l’ultima parola di Tropico del Cancro, ma mi sembra di ricordare anche che il libro non finisca con immaginazione, né che l’ultima frase sia immaginazione è l’ultima parola, dovrei ricontrollare. Anzi no, non posso: perché io Tropico del Cancro l’ho buttato dal balcone della casa di mia nonna al paese, non è così pour parler, buttare è proprio le mot juste, era un periodo in cui odiavo particolarmente gli scrittori francesi ed in quella parentesi di antifrancesità decisi di farci cadere pure uno scodinzolìo di antiamericanità, Henry Miller m’era davvero andato a noia, era un tempo in cui andava a noia tutto, e la prassi era che prima io e te litigavamo selvaggiamente, poi tu volavi dritto dalla finestra.
In quel periodo là, ecco, vociferavano parla col rap, lui. Avevo l’amaro in bocca, sempiternamente.
[E comunque immaginazione era l’ultima parola che diceva Edgar Varése in un capitolo a lui dedicato su L’incubo ad aria condizionata di Miller, che non è un romanzo ma una raccolta di scritti sul viaggio in America che Miller compie dopo essere tornato dall’Europa, mi correggerà Carlo quando leggerà questo racconto, tempo dopo.]
Il miele è dolce, di prassi. Se ci inzuppi i libri, però, in quel caso no: il miele si fa amaro, come la libreria che sta nel pieno dello struscio cagliaritano e dentro la quale la nike di Samotracia, in mezzo a tutte quelle sneakers e ai writer e all’hiphòppica lingua diventa Naic, è un attimo: dillo e basta, Just do it.
A sentir parlare del katacrascio c’è pure Fabio. Fabio fa una musica che quante volte l’avrai sentito, c’è chi la definisce rumore. In ispagnuolo rumore si dice ruido e si pronuncia con l’accento sulla i, parola sdrucciola dal suono sdrucciolevole. Fabio si fa chiamare Rùido, con l’accento sulla u, se il rap ti va a genio e ne sai almeno un po’ sicuro che lo conosci.
Nell’anno del giubileo ho avuto l’onore di essere su un disco di Ruido, era la traccia quindici, si chiamava Qua si parla di relax e non era un pezzo malvagio, c’ero io col compare della mia crew e pure Moro, oltre alla Fit Prod. Tolgo mise che non mi si addicono, abdico ogni impegno come tipico nei giorni di relax, dicevo in quel pezzo, era il periodo in cui non m’andava a genio tantaròba, tra cui indossare mise che non mi si addicevano. Quando presentò Gli 8 comandamenti, la Fit Prod, s’organizzò un gran concerto a Cagliari: io non c’ero, però il giorno dopo Goppy mi chiamò dicendo “dovevi sentire, goppàre, abbiam cantato la tua strofa tutti insieme. Sembrava che fossi morto”, che doveva suonare come un gran tributo, credo, ed io così lo presi, in buona sostanza: mica m’incazzavo davvero sempre.
Fabio, era l’ultimo giorno di Passaggi, ci ha invitati a Iglesias e noi ci siam giunti con le gambe stanche, a Iglesias c’è sempre una cedrata fresca e Loorto ad attenderti. Erano anni che non ci tornavo, a Loorto, ma dai subwoofer escon sempre suoni potenti, dentro quello studio; Ruido sui quattro quarti se la zacca alla pensc, è un motto nonsènsico ma funziona: ascolta Ruido sui quattro quarti in “4/4” e vedi se non ti scappa di zaccartela alla pensc un po’ pure a te, che non sai cosa significa.

LA(TRA)TI DEI CANI Là FUORI
Che tu ci creda o no, caro mio bolide d’un lettore, è l’onestà intellettuale che parla per me, avrei un fracco di ròbe da raccontarti, su Gianni Tetti; ma c’è un bel dialogo altrove su questo libèllo, perciò non ti rubo tempo prezioso.
Prosegui, non titubare, si parla di calcio nel prossimo paragrafo. No, ho detto di calcio. Niente figa.

COM’UN SALISCENDI, DI TACCO E DI PUNTA
Con Carlo discutiamo ancora un po’ di lettere: potremmo snocciolare argomenti meno fumosi, tipo perché è un po’ Simone ed un po’ Carlo, o cosa ci sia di davvero imperdibile a Nebida, ma non importa, di romanzi ci vien meglio, di romanzi e di pallone.
Una ròba che non t’aspetteresti mai è che Carlo tifa l’aèsseroma, che è un po’ l’appalesamento della veridicità vendìttica: l’aèsseroma sembrerebbe essere davvero quella cosa che ti fa sentire amici anche se non ci si conosce, e che ti fa sentir vicini anche quando si è lontani.
Te lo dice con rabbioso rimpianto che giuocava al calcio, Carlo, laterale sinistro d’attacco, filiforme e nervoso come un Cristiano Ronaldo meno glam e più sudato, testa bassa e ginocchia appuntite, lunghe leve e pedalare sulla fascia, su e giù, un calcetto al terzino, un dribbling stretto, Carlo che però dentro ce la buttava mica mai, ti confessa. L’inno trasteverino, quello che ad un certo punto s’inerpica sulle alte vette della spocchiosità minacciosa intonando mo’ so dolori perché Roma ce sa fa: io non lo so se Carlo l’ha mai canticchiata, quella canzoncina, se la conosce. Provo a raccontargliela mentre attraversiamo lo stagno di Molentargius, ci sono fenicotteri ovunque, somigliano molto nella mia immaginazione alla mise che doveva avere Carlo quando scendeva in campo, i fenicotteri. E immaginazione è l’ultima parola. E no: non la sapeva, la canzoncina in cui ad un tratto si gorgheggia e quanno che comincia la partita ogni tifosetta se fa ardita, tifa forzaroma a tutto spiano con la bandieretta ‘n mano perché c’ha er còre romano.
Però amava i colpi di tacco, Carlo, ed i passaggi di punta, i tocchi di genio, quelli che non ti aspetti, quelli che sopraggiungono inattesi, come la scalinata per affacciarsi dalla laveria di Nebida, centinaia e centinaia di gradini scavati nella roccia che si tuffa nel mare azzurrèrrimo.
Si scende? Si scende.
La gravimetria è una scienza esatta, se non la conosci non è grave: è una branca della geofisica che si occupa di studiare i campi gravitazionali. Detto in soldoni, com’è che cade ogni cosa che per ineluttabile destino deve cadere. Intrufolarsi negl’interstizi dell’opificio come filoni di rame tout venant è tutt’un precipitare gravimetrico; dentro le laverie ci si arricchisce, lo facevano un tempo il piombo e l’argento, oggi è come se fossimo un po’ pagliuzze minerarie anche noi, risucchiati dal libeccio che t’accarezza la schiena e t’invita al volo, atavici richiami in tabarchino sussurrati dalle spiagge dell’isola di San Pietro.
Scendere si scende, basta poggiare il tacco e lentamente adagiare la punta sul gradino, se t’arrischi in un punta punta punta finisce che ti esplodono i polpacci, bisogna saperci andare di fino, con la scalinata della laveria di Nebida.
Che sembra un po’ come quando scrivi un libro, incespicare e discendere senza guardarti indietro, precipitare con l’occhio fisso all’orizzonte, con un briciolo d’incoscienza stretto in pugno fin quando arrivi, stancamente ma arrivi, respiri il corbezzolo e tocchi le foglie del mirto, hai la pietra ruvida e calda sotto le gambe, e non sei che a metà del viaggio. Che poi dovrai pur risalirla, la china, tornarci, sui tuoi passi, capire se puoi permettertelo ancora, quel punta tacco punta, o se dovrai piuttosto limitarti ad un passaggio col piattone interno destro. È la teoria del saliscendi, del daje de tacco eddaje de punta.
Io non lo so se a Isacco Newton era mai passato per la testa di mela bacata ch’aveva questo pensamento, però la gravità è anche quella che scende sui volti quando c’è da dirsi che poi alla fine ciao, prima di trasvolare altrove.
E va bene gl’abbracci, le pacche, i ci si vede, però ecco gli addii: gli addii sono sempre un po’ come spingere un bottone in down.
A Masua c’è un tramonto dietro il Pan di Zucchero che non vorresti mai doverlo raccontare.
E dovrei esser triste, vorrei sul serio, ma non ci riesco.
È che per via di quel bottone dell’amicizia in perenne stato off, sono interdetto anche alla malinconia.
Che volete farci: ho questo neo.

Alessandra Pigliaru | In girum… appunti sul pensiero di Guy Debord

Il mondo reificato appare (…) definitivamente come l’unico mondo possibile, l’unico mondo concettuale afferrabile e comprensibile che sia dato a noi uomini
[G. Lukács]

Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci
[Marx]

Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione
[Debord]

Premessa
Nella noiosa e malinconica rappresentazione e duplicazione della realtà, il soggetto detiene un posto di assoluto rilievo: è infatti, a un tempo, vittima e carnefice del suo stesso destino. Colui che “subisce” (qualcosa o qualcuno) è comunemente detto vittima: ruolo di subalternità e subordinazione nei confronti di chi esercita un potere sull’altro, per esempio. Tuttavia sarà opportuno rilevare come nella dialettica signoria-servitù (descritta da Hegel e ripresa per la coda da Marx) non esiste più la possibilità di “ribaltamento”. In un’epoca come quella contemporanea, parricida e ingrata verso un passato da dimenticare, non si distingue più l’altro che ci sta di fronte. Siamo in(te)grati all’interno di una pièce della quale non siamo né spettatori né attori. Appariamo semmai cose tra le cose; oggetti di cui a tratti si intravede il volume, appiccicati in una immensa tappezzeria di foto spedite a caso, senza mittente né destinatario. L’elemento che accomuna le immagini rappresentate nelle foto è la casualità del momento immortalato: mancanza di profondità, segmenti di vita che muoiono nel tratto di strada percorsa. L’immensa tappezzeria è il “fondo” in cui cammina il soggetto della società dello spettacolo. Scenografia di carta e plastica dunque, veli di maya postmoderni che, squarciati, non nascondono nulla. Pensiamo al gesto quasi titanico di Truman, protagonista del film di Peter Weir, che arrivato al “fondo” della sua vicenda si scontra con l’orizzonte e lo scopre finto. La vittima è inconsapevole di essere tale; avverte di essere marionetta ma non si sente strattonata da nessun burattinaio: non c’è nessuno che muove i fili. La vittima, colei che rinuncia alla vita perché ne è dipendente, non ha nessuna contro-parte alla quale resistere. Nella società dello spettacolo l’unico “rovesciamento” (che presuppone dunque una relazione) è quello del falso che diventa un momento del vero (cfr. Debord 1967, p.55).

Breve appunto

Ciò che appare è ciò che è. Un fondo neutro dove in dissolvenza appaiono, dal buio, immagini di oggetti proiettati. Nella dimora sotterranea a forma di caverna si alternano luci e ombre. L’uomo, secondo il mito platonico, è incatenato gambe e collo. Immobilizzato non può in alcun modo voltarsi e ciò che “viene offerto” alla sua vista è per lui la verità. Ma se quell’uomo venisse improvvisamente strattonato e costretto a guardar la luce stessa come reagirebbe? I suoi occhi sarebbero abbagliati perché non potrebbe abituarsi alla luce così rapidamente; «…non fuggirebbe volgendosi agli oggetti di cui può sostenere la vista?» Secondo Platone è attraverso l’abitudine e l’esperienza che l’uomo incatenato riuscirà a vedere il mondo superiore; riuscirà insomma a capire che ciò di cui si cibava nella tenebra della sua prima dimora altro non era che illusione. Questa descrizione sommaria delle dense pagine platoniche ci serve come quasi a voler dipingere un’immagine: l’uomo legato gambe e collo sta di fronte allo “schermo” delle sue possibilità. A lui decidere ciò che fare. A lui decidere di “delegare” il compito della sua “risalita” ad altri. Ma pensiamo per un attimo ad un individuo che, pur conoscendo cosa gli riserva l’esterno della caverna, non se ne curi. Pensiamo ad un individuo che sceglie di tenere le catene perché solo di ciò che vede riflesso può sostenere la vista. Ciò che appare continuerà a sembrargli vero. La copia dell’originale sarà il fondo verso cui si specchia, verso cui “si riconosce”. Ciò che appare sarà “senza spessore”, a una dimensione. Ciò che è coincide con ciò che appare e, proprio a causa di questa conciliazione, viene a prodursi paradossalmente una frattura insanabile. Ciò che appare è ciò che è. «Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso» (Debord 1967, p.55)

Digressione
Gli uomini non possono vedere nulla intorno a sé che non sia il loro proprio viso: tutto parla loro di loro stessi. Anche il loro paesaggio ha un’anima.

[Marx]

La separazione è l’alfa e l’omega dello spettacolo. (…) Lo spettacolo è la conservazione dell’incoscienza nel cambiamento pratico delle condizioni di esistenza. (…) Ogni comunità e ogni senso critico si sono dissolti nel corso di questo movimento, nel quale le forze che hanno potuto crescere separandosi non si sono ancora ritrovate.

[Debord]

Parigi 1960. Caroline cammina decisa. Capelli molto corti. Controllata e pensierosa sembra dirigersi in un luogo preciso. Voci fuori campo. Così si apre l’essenziale pellicola di Debord dal titolo Critique de la séparation.
«Lo spettacolo cinematografico ha le sue regole, che permettono di realizzare dei prodotti soddisfacenti. Tuttavia, la realtà da cui bisogna partire è l’insoddisfazione. La funzione del cinema è presentare una falsa coerenza isolata, drammatica o documentaria, come surrogato di una comunicazione e un’attività assenti. Per demistificare il cinema documentario, bisogna dissolvere quello che si chiama il suo soggetto…Una ricetta ben consolidata stabilisce che, in un film, tutto ciò che non è dettato per immagini debba essere ripetuto, altrimenti il suo senso sfuggirà agli spettatori. E’ possibile. Ma questa incomprensione è dovunque negli incontri quotidiani… Dopo tutti i tempi morti e i momenti perduti, restano questi paesaggi da cartolina illustrata attraversati senza fine; questa distanza organizzata tra ciascuno e tutti. L’infanzia? Ma è qui; non ne siamo mai usciti. La nostra epoca accumula poteri, e si sogna razionale. Ma nessuno riconosce come suoi dei simili poteri». (Debord 1961)

L’immagine-movimento viene sostituita dall’immagine-documento: fotogrammi come inquadrature e interpretazioni di un’epoca, la nostra, che sgretola e svuota di senso il referente ultimo dell’imago: la realtà. Se l’immagine cinematografica si dà come elemento-medio tra l’immagine e ciò che dovrebbe rappresentare, nell’epoca contemporanea tale “riferirsi” è un “rinvio” di cui non si hanno origini certe se non nel magmatico dominio dell’oscurità. Il cinema di Debord produce una crepa nel senso comune e «assume tutta la forza filmica di ciò che è non solo filmare l’invisibile (dell’occhio dormiente morto) ma l’invisibile che è il filmare stesso» (Ghezzi, 2004); il suo è un tentativo politico prima che artistico, una tensione costante e ripetuta di portare alla luce la memoria di una realtà che non soddisfa, una realtà che tracima il cadavere della cultura e lo prepara per le nostre tavole addobbate di ipocrisie. La mutazione dei tempi storici non ha fatto altro che accogliere il messaggio debordiano all’inverso: alla secca litania dell’immagine-documento detournata, pesante come una pietra nello stomaco dei benpensanti, si è sostituita la sequela del consumo sfacciato e selvaggio. Alla voce fuori-campo che si leva come un monito durante la sequenza dei fotogrammi, è subentrata una processione, pre-vista dallo stesso Debord, di “signorine buonasera” legittime custodi del solo presente, che accolgono nei loro generosi e rassicuranti decolté la maternità della storia e della memoria. «Lo spettacolo è la realizzazione tecnica dei poteri umani in un al di là: la scissione compiuta all’interno dell’uomo» (Debord 1967, pp.58-59).

Della deriva

Il soggetto produce, come quasi un prolungamento di sé, un ambiente o un percorso entro il quale può muoversi liberamente: il calcolo dei tragitti abituali dettati dalle costrizioni quotidiane vengono sostituite da uno sfaldamento dei confini e dalla “possibilità di cambiar strada”. Dietro gli esperimenti sulla deriva che Debord fa c’è un impianto teorico interessante ed attuale al contempo: la deriva infatti presuppone la nascita di un nuovo Urbanismo entro cui il soggetto, muovendosi nello spazio circostante, tesse la tela delle sue possibilità; dietro alla teoria della deriva, o forse come suo presupposto, sta la liberazione del soggetto, il disancorarsi dalla propria costrizione per creare, quasi paradossalmente, ciò che potrebbe appartenergli: se stesso e l’altro da sé. Ciò che percepisce il soggetto è l’espropriazione di un mondo auto-sussistente, un organismo farraginoso e intestinale che lo vede (o meglio lo osserva) gettato in una situazione già pre-confezionata in cui potrà, se vuole, solo comparire a intermittenza. Se è vero (come scrive Althusser) che esiste una filosofia del senso comune ed una Filosofia tout court per la quale il mondo può e deve essere trasformato, Debord propone di far diventare il nostro orticello ricco di idee fuori stagione un terreno piano e fecondo di infinite possibilità scaldato dalla fioca luce della ragione. L’orticello delle idee della filosofia del senso comune è in fondo il nostro piccolo e rassicurante recinto, un luogo sicuro in cui si nutre l’illusione di poter dire cose di una certa incidenza. Come i sogni anche le illusioni si pagano col prezzo del mattino, e l’orticello diviene presto uno “scompartimento” da cui si crede di poter guardare fuori: risulta essere effettivamente il luogo in cui sono state calcolate perfettamente tutte le possibili direzioni. (cfr. Jappe, 1999, p. 166) Le distanze tra l’interno e l’esterno sono così filtrate da un trama fitta di relazioni che poco spazio lasciano alla libertà di ognuno. Avere il coraggio del proprio intelletto e del proprio pensiero è lo scardinamento del recinto, è la presa di coscienza della nostra precarietà e della “trasversalità” dello spazio del soggetto. L’apertura dello spazio al soggetto è dunque la possibilità di uscita dal labirinto delle abitudini, la fuoruscita dall’incubo del “territorio programmato” a cui Debord dedicherà il settimo capitolo de La società dello spettacolo. La deriva è per i situazionisti un esperimento, un rendez-vous possible di cui il soggetto è protagonista assoluto. L’appuntamento possibile si colora, più di altri esperimenti sulla deriva, di cosiddetti comportamenti spaesanti. «La parte dell’esplorazione appare minima…nell’appuntamento possibile» (Debord, 1956, p. 117). Nel randez-vous possible larga parte ha la situazione emotiva del “soggetto spaesante” visto che l’azione e la conseguente re-azione da parte di terzi è assolutamente imprevedibile; pare dunque una ricognizione del campo empirico e delle interferenze da parte di altri appuntamenti di attese senza scopo preciso. In questo apparente caos di temporalità che si incontrano sta l’essenza dell’esperimento (che risulta paradossale visto che di esso l’oggetto è qualcosa di non ripetibile cioè l’esperienza): riscoprire la propria libertà spaziale. In linea di principio, il progetto situazionista riguardante la teoria della deriva è denso di significato: la libera costruzione della vita quotidiana e un parziale contributo alla “produzione” teorica e pratica della contestazione alla “modernizzazione” . Scrive Debord nel 1963: «Pur con occasionali differenze nei suoi mascheramenti ideologici e giuridici, è sempre la stessa società – contraddistinta dall’alienazione, dal controllo totalitario e dal passivo consumo spettacolare – che prevale ovunque. Non si può capire la coerenza di questa società senza una critica radicale che si ispiri ad un progetto di opposizione di una creatività liberata che è il progetto di sovranità di tutti gli uomini sulla loro propria storia e a tutti i livelli». (Debord 1963, p. 3).

Dello spettacolo

Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico. In verità che cosa potrebbe essere più razionale della soppressione dell’individualità nel coso della meccanizzazione di attività socialmente necessarie ma faticose.

[Marcuse]

«Lo spettacolo è l’erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale, che fu pure una comprensione dell’attività, dominata dalle categorie del vedere; così come si fonda sull’incessante spiegamento della razionalità tecnica precisa che è uscita da questo pensiero. Esso non realizza la filosofia, filosofizza la realtà» (Debord 1967, p.58) E ancora: «L’alienazione dello spettatore a beneficio dell’oggetto contemplato…si esprime così: più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio. L’esteriorità dello spettacolo in rapporto all’uomo agente si manifesta in ciò, che i suoi gesti non sono più suoi, ma di un altro che glieli rappresenta. E’ la ragione per cui lo spettatore non si sente a casa propria da nessuna parte, perché lo spettacolo è dappertutto» (Debord 1967, p.63) Ciò che lo spettacolo mostra è il mondo della merce. Ciò che la merce produce e di cui si nutre è la categoria del quantitativo sottomessa al qualitativo. La trasfigurazione del lavoro umano in lavoro-merce risulta uno degli aspetti e delle conseguenze dell’indipendenza della merce che esercita il suo dominio incondizionato sull’economia. Lo spettacolo è il palesarsi della dittatura della merce che non “agisce” in modo occulto ma occupa totalmente la vita sociale. Ecco che alla distinzione tra valore d’uso e valore di scambio si sostituisce l’identificazione, pressoché completa, dei due valori della merce fino al punto in cui il valore d’uso diventa egemone. Tutto ciò determina una forma perversa di privazione. «Il consumatore reale diviene consumatore di illusioni. La merce è questa illusione effettivamente reale, e lo spettacolo la sua manifestazione generale». (Debord 1967, p.72). Nella società dello spettacolo la merce è creatrice del mondo e auto-sussistente. Nel mondo rovesciato dello spettacolo la merce contempla se stessa: la sua pseudo–giustificazione sta nello pseudo-uso della vita. Il meccanismo pare contorto e pur tuttavia talmente semplice da essere inquietante: «la rappresentazione spettacolare dell’uomo vivente» determina il movimento e lo sviluppo di banalizzazione; è Debord a chiarire: la giustificazione di ogni merce risiede nell’abbondante produzione della totalità degli oggetti «di cui lo spettacolo è un catalogo apologetico». (Debord 1967, p.82). L’oggetto singolo è investito, agli occhi del consumatore, di un carattere religioso, quasi mistico. Tale stato comprende e “permane” nell’oggetto come produttore di illusioni. In altre parole, nonostante la singola merce venga consumata, la forma-merce persiste verso la sua realizzazione assoluta. Ogni merce logorata comporta l’insorgenza di un’ulteriore merce che legittimi l’illimitato artificiale (Cfr. Debord 1967 p.84). Il nostro è «il tempo delle cose, perché l’arma della sua vittoria è stata appunto la produzione in serie degli oggetti, secondo le leggi della merce». (Debord 1967 p.135)

Il desiderio della merce

«Senza dubbio, allo pseudo-bisogno imposto nel consumo moderno non può essere opposto nessun bisogno o desiderio autentico, che non sia esso stesso anch’esso formato dalla società e dalla sua storia. Ma la merce abbondante sta a dire la rottura assoluta di uno sviluppo organico dei bisogni sociali. La sua accumulazione meccanica libera un artificiale illimitato, di fronte al quale il desiderio vivente resta disarmato. La potenza cumulativa di un artificiale indipendente comporta dovunque la falsificazione della vita sociale» (Debord 1967, p.84)

È lo stesso desiderio ad aver subito una metamorfosi di senso e, con esso, anche le conseguenti emanazioni. Il modo bulimico spettacolare aderisce al cambiamento dell’oggetto da fagocitare. Ciò che si vuole è qualcosa di avvelenato già all’origine, qualcosa di consumabile e perituro – come una merce appunto – che può essere rottamata e sostituita alla prima occasione. Ecco dunque che se di bulimia desiderativa si parla, lo si fa solo in senso mercificante e disumanizzato. Ciò che si possiede è, alla fine dei conti, un orpello, qualcosa di acquistabile e quantificabile. Il desiderio traghetta il soggetto verso una sponda straniante, anestetizzata e pervertita (nel senso di perpetuamente uguale a se stessa): verso lo spreco incontrollabile, un eccesso che riscalda e che prende il posto di qualunque sentire. Questa deiezione della coscienza spinge a confondere la mancanza con il residuo. L’inesorabile litania della merce che assale è l’unica cosa per cui vale la pena inseguire lo pseudo-bisogno. La merce è l’unico modo per non ascoltare, per farsi imbottire di suggestioni immaginifiche e torturanti. Ecco dove sta la rassicurazione: nella consapevolezza di un avvenire unidimensionale. Il soggetto si fa testimone del sogno della merce e se ne prende una gran cura; per nulla al mondo abbandonerebbe il campo fatato del bisogno (spesso scambiato per appetizione). Così anorexis è un termine desueto che andrebbe riconsiderato alla luce del fardello che si porta sulle spalle: quello della vertigine e della paura di un nemico che non esiste ma che ama travestirsi di sempre più edulcorate ossessioni. Non c’è più mancanza che non cavalchi l’eccesso e non c’è narcosi che non preveda al proprio interno una spiccata brama di avere-tutto-nell’immediato. Così il paiolo bucato lascia il posto ad una cartografia dell’effimero che spaventa e fa tremare ma che sembra l’unica modalità di stare al mondo: il nutrimento è cosa passata. L’uomo non è solo ciò che mangia ma il prodotto dei propri inganni, fossero questi ultimi augurabili o no.


Cultura. Istruzioni per l’uso

«La cultura è il luogo della ricerca dell’unità perduta. In questa ricerca dell’unità, la cultura come sfera separata è costretta a negare se stessa» (Debord 1967, p.161). I motivi sono da ricercare nella frattura del linguaggio che non può più comunicare nulla oltre l’impossibilità di cambiamento. Così anche l’arte cosiddetta di avanguardia altro non è che la sua stessa scomparsa. La realizzazione dell’arte è al di là di se stessa (Cfr. Debord 1967, p. 166). Ecco che, con arbitraria fondazione, sorge la pseudo-cultura spettacolare; la pseudo-cultura che cerca di ripristinare un’unità senza comunità. Allora la cultura nelle sue manifestazioni e parcellizzazioni diviene anch’essa merce. Merce al servizio del pensiero spettacolare. Il severo avvertimento debordiano esorta all’attenzione su quanti abbiano cercato di criticare lo spettacolo. Si rischia di cadere nella superficialità di attacchi senza spessore che non tengono conto della “profondità” di una società delle immagini. Le radici di tale “trasformazione” infatti sono da indagare nelle basi materiali dello spettacolo stesso. Tanto si è discusso sul testo principale di Debord e tanto si è abusato. Stralci e brevi periodi possono essere (e sono state) oggetto di becere strumentalizzazioni politiche che poco hanno a che fare con il détournament. Ecco che si commette l’errore di inciampare nel linguaggio sterile dello spettacolare pur cercando di contrastarlo. «Per distruggere effettivamente la società dello spettacolo, occorrono degli uomini che mettano in azione una forza pratica». L’agire, che tanto spaventa certi filosofi, tutti intenti a fabbricare i loro “ siparietti personali”, significa mettersi in gioco e considerare il potere del pensiero come ciò che può trasformare la realtà. La debolezza del pensiero filosofico di cui parla Debord, deve portare ad una rinnovata presa di posizione di fronte a quanto sta accadendo. «La coscienza spettatrice, prigioniera di un universo appiattito, delimitato dallo schermo dello spettacolo, dietro il quale è stata deportata la sua vita, non conosce più se non i suoi interlocutori fittizi che la intrattengono unilateralmente sulla loro merce e sulla politica della loro merce» (Debord 1967, pp. 181-182). È chiaro come lo spettacolo si serva delle coscienze spettatrici e fin qui ci possiamo ritenere in qualche modo solo “ingannati”. Ma c’è dell’altro: non solo si stabilisce un dialogo fasullo tra il soggetto spettatore e l’illusorio interlocutore ma si innesca un meccanismo di frustrazione, a causa delle pseudo-risposte, che determina il bisogno di emulazione. Il sentimento di supplizio quasi fisico che il consumatore metabolizza come bisogno di rappresentazione sta alla base della nevrosi spettacolare (Cfr. Debord 1967, p. 182). La scelta individuale era forse possibile nell’ottica debordiana del ’67; risulta impraticabile secondo la più recente analisi che viene fatta nei Commentari sulla società dello spettacolo del 1988. Secondo Debord infatti l’esito dello spettacolo è il totale mescolamento dell’immagine alla realtà. Non esiste opposizione e capacità critica perché non esiste la condizione della distinzione. Il governo spettacolare risulta “occulto” nell’accentramento del suo potere; le due modalità di diffusione e concentrazione si risolvono e confluiscono nel cosiddetto “spettacolare integrato”. Se prima il vero era divenuto un momento del falso, ora il vero è “indimostrabile”. (cfr. Agamben, 1998, pp.9-12) La conseguenza dell’integrato è esattamente la mancanza di discussione nell’appiattimento dell’eterno presente (Cfr. Debord 1988, pp.195-199). Allora al “bombardamento” gratuito e unilaterale da parte della merce-vedette, si aggiunge e si fa strada un altro fenomeno conseguente allo “spossessamento”: il voyerismo di spiare ciò di cui ci sentiamo privati. Ciò che è nascosto e dovrebbe forse restare privato assume un ruolo importante nell’economia spettacolare integrata: guardare come gli altri vivono e si relazionano fra loro ci fa dimenticare quanto poco ci occupiamo della nostra quotidianità. E’ come guardare attraverso il buco di una serratura o scoperchiare per un attimo il soffitto delle stanze altrui restando passivi testimoni e fare finta di calarsi nell’altro, derubandolo di un po’ di intimità. Lo spettacolare anche detto “mediale” ha prodotto secondo Debord una fitta rete di rassicurazioni per ognuno dei consumatori: dall’esperto-mediale (colui che ha sempre la risposta adatta [quindi falsa]) a colui che dovrebbe informare o che ritiene di poter testimoniare qualcosa. Tutto falsato dunque comprese le nostre percezioni. Tutto equivalente sotto il comune denominatore dello spettacolo integrato. Ecco che ciò che appare esiste. Esiste in quanto appare. Questo vale sia per gli oggetti sia per le notizie (per esempio): «ciò di cui lo spettacolo può smettere di parlare per tre giorni è uguale a ciò che non esiste. Perché allora parla di qualcos’altro, e quindi è quella la cosa che, a partire da quel momento, in definitiva esiste». (Debord 1988, p.201).

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Guy-Ernest Debord (testi utilizzati)

1956 Theorié de la dérive, in Les Livres neus, n. 9, novembre 1956, Bruxelles ; ed it. Teoria della deriva in Potlatch, Bollettino dell’internazionale lettrista 1954-57, Nautilus, Torino 1999.

1961 Critique de la séparation, Regia e sceneggiatura: Guy Debord. Montaggio: Chantal Delattre. Interprete : Caroline Rittener. 1961, b/n, 35 mm, 19’ (ora in Guy Debord. Opere cinematografiche, Bompiani 2004)

1963 Les situationnistes et les nouvelles formes d’action dans la politique et dans l’art, in Destruktion af RSG-6 : En Kollectiv manifestation ok Situationistik Internationale, Galeria EXI, Odense (Danimarca) 1963 ; ed. it., I situazionisti e le nuove forme d’azione nella politica e nell’arte,( trad. a cura di C. Maraghini Garrone) Nautilus, Torino 1990. Recentemente in trad.it. a cura di E. Ghezzi, R. Turigliatto, I situazionisti e le nuove forme d’azione nella politica o nell’arte, in Guy Debord (contro) il cinema, Il Castoro-Biennale di Venezia, Milano 2001.

1967 La Société du Spectacle,Buchet-Chastel, Parigi 1967 ; ed. it. , La Società dello Spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano 1997, (prefazione C. Freccero e D. Strumia).

1988 Commentaires sur La Société du Spectacle, Gerard Lebovici, Parigi 1989; ed. it., Commentari sulla Società dello Spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano 1997, pp. 185-248 (nota biografica P. Corrias).

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Bibliografia secondaria

1966 Gianfranco Marelli, L’Amara vittoria del situazionismo: per una storia critica dell’Internationale Situationniste, BFS edizioni, Pisa.

1998 Giorgio Agamben, Violenza e speranza nell’ultimo spettacolo, in AA.VV. I situazionisti e la loro storia, Manifestolibri, Roma.

1999 Anselm Jappe, Guy Debord, Manifestolibri, Roma (prima edizione Tracce, Pescara 1993).

2004 ID. L’avant-garde inacceptable – réflexions sur Guy Debord, Éditions lignes-Léo Sheer.

2007 ID. « Arte o rivoluzione? » (sul cinema di Debord), Lucca Film Festival 2007, Titivillus edizioni Lucca.

2004 Enrico Ghezzi, Introduzione a Guy Debord. Opere cinematografiche, Bompiani, Milano.

Simone Rossi | Abbandono Oblio Deserto

Abbandono
La prima volta che trovo una stanza a Bologna è appena iniziato gennaio: mio nonno è ancora vivo.
Costa poco, è singola, c’è internet: basta. La tipa è gentile. Fricchettona, ma gentile.
È vestita come il suo cane, letteralmente: lei ha i pantaloni verdi della tuta e una felpa rosa, e il suo cane pure. Rosa è anche il nome del cane. Le faccio notare questa cosa dei vestiti uguali (lei non se n’era accorta).
Ah, guarda! È vero! Non ci avevo fatto caso! Rosa, hai visto? Sei vestita come la mamma!
Rosa è nera. È un mastino napoletano.
Non c’è problema, penso.
Il cane non è mio, dice lei.
Non c’è nessun problema, penso.
È del mio ragazzo, dice lei. Lui ha avuto qualche casino e allora l’ha lasciato a me.
Il tuo ragazzo è un punkabbestia, penso. Adesso probabilmente è in galera, e in galera i cani non ce li fanno entrare. Non c’è problema. Non c’è davvero nessun problema. Smetto di pensare, parliamo. Sparo subito i colpi migliori: suono, scrivo, tiro su la tavoletta del cesso, la ritiro giù. Beviamo un tè, lei fuma una sigaretta, Rosa dorme.
Torna la settimana prossima, dice lei. Ti faccio conoscere la mia coinquilina.

Un week end di metà gennaio muore Tonino Gamberini detto Bartulò, di anni 82.
Sua moglie se l’aspettava, ma non se lo sarebbe mai aspettato. Sua figlia si ritrova a pensare che forse questa è una liberazione. Io mi ritrovo con mio nonno in una bara e il mio nome su una corona di fiori, e posso farci veramente poco.
Però penso a una scena: la scena del nipote che chiama la nonna da un appartamento al sesto piano alla Bolognina, con i cani neri vestiti di rosa e la Verde Dorata Virginia, il Pratello monello e i muri con il pennarello, il cappuccio tirato su, la postura sbagliata e le notti a far finta di avere una macchina da scrivere, no, non ce la faccio.
Come stai, nonna? Io sono a Bolo! La strada vede tutto, nascita e lutto! Ah, la scena culturale bolognese! Non puoi proprio capire, guarda!
Come vuoi che stia, idiota di un nipote, tuo nonno è morto l’altro ieri e tu vai a sputtanarti i soldi che non hai vivendo in una casa che non ti serve insieme a Rosa e alla padrona di Rosa, che il cane non è nemmeno suo ma del suo moroso punkabbestia.
Infatti no, scusami nonna, non ci vado. Rimango qua.
Rimango a Forlì. Anzi, no: in provincia di Forlì.
Mando un messaggio alla fricchettona: Scusa, è successa una cosa brutta. Non ci vengo più a Bologna. Scusa. Dai pure la stanza a qualcun altro. Scusa. Ciao.
La fricchettona non mi risponde. Chissà se ho scritto bene il numero.

Oblio
Un pomeriggio di metà marzo prendo un sasso bianco dal vaso di fiori e me lo metto in tasca. Mi siedo sul cemento, guardo la sua faccia da capo indiano incastonata nel marmo. Cimitero di campagna alle due di pomeriggio di un martedì, il niente pieno di uccellini.
Nonno, mi sembra di stare dentro a quel racconto che non ho mai scritto, quello della tipa che va a piangere sulla tomba del suo insegnante di pianoforte, però se la guardi bene non sta piangendo.
Nonno, ti volevo dire che vado a Bologna. Ho trovato questa stanza, un’altra, non quella del cane. Sono due mesi che mi faccio invitare a pranzo dalla nonna, mi alzo alle nove e non faccio colazione, così mi viene fame a mezzogiorno: passatelli in brodo, cotolette, pomodori in gratè, pesche sciroppate, susine sciroppate, una fetta di panettone che mi è rimasto lì da Natale. Caffè, divano, Famiglia Cristiana.
La nonna mangia a testa bassa, poi mi dice: Andiamo di là, devo misurarti un paio di pantaloni.
Un paio di pantaloni tuoi.
Cucinare e cucire: Ada Ricci vedova Gamberini non conosce altri modi per tenere insieme i pezzi. Cucinare, cucire e andare alla Messa. E venirti a trovare a orari improbabili, così non incontro nessuno che tanto non ho voglia di incontrare nessuno.

Nonno, quando vengo a mangiare da voi mi siedo sempre al tuo posto: me l’ha chiesto lei.

Deserto
La seconda volta che trovo una stanza a Bologna è metà marzo, la settimana scorsa. Prezzo un po’ più alto, ma basso abbastanza, Fastweb, una finestra che dà sul muro della casa di fronte.
Bellissima, la prendo.
Le coinquiline sono pulite, troppo pulite, pulitissime. Sono altoatesine. Sul frigorifero c’è un foglio con sopra i nomi degli aspiranti coinquilini. Di fianco a ogni nome c’è il numero di cellulare e due righe di giudizio. Numero dodici, simone rossi: Simpatico. Ride sempre. Suona un sacco di strumenti. Potrebbe insegnare a suonare la chitarra a Sonja.
Le altoatesine sembrano conquistate. Mi sceglieranno, sono sicuro.
Non mi scelgono.
Mi chiama Sonja l’altro ieri e mi dice: Guarda, avremmo scelto te.
Però usi il condizionale, dico io.
Lei non capisce.
Cosa?
No, dico: usi il condizionale. Vuol dire che c’è qualcosa che non va.
Ah, sì, il condizionale. Sì, c’è qualcosa che non va: il padrone di casa vuole un universitario, perché ha la convenzione con il Comune e può prendere solo degli universitari. Se dovessi venire tu, lui sarebbe costretto ad aumentarci l’affitto.
Ancora il condizionale. Ma non si può dire che sono uno studente anche se non è vero? Il badge ce l’ho ancora.
No, dice Sonja: non si può.
Ma lui non lo deve mica sapere, dico io.
Ormai gliel’abbiamo detto.
Gli unici studenti universitari onesti di tutta Bologna sono due studentesse universitarie altoatesine.
Affanculo voi e i vostri canederli, penso.
Allora ci sentiamo, dice Sonja.
No che non ci sentiamo, Sonja. Non ci sentiremo più. Checcazzomifrega di sentirti. La mia vita ha incrociato la tua perché avevi una stanza a poco prezzo da affittarmi, non me la affitti e allora ciao, addio, adesso cancello il tuo numero dalla rubrica, devo liberare un posto.

La terza volta che trovo una stanza a Bologna non c’è stata, è luglio sbricioluglio e mia nonna firma ancora i biglietti d’auguri al plurale. I miei amici continuano a fare figli, io no.